O protagonisti o nessuno
Mentre è in corso il meeting di quest'anno, rileggiamo il bilancio tracciato da Giancarlo Cesana al termine del meeting 2008.
Nato nel 1980 dall’iniziativa di quattro amici al bar, il Meeting di Rimini è ormai l’unico grande evento dell’estate con una sua precisa identità che lo distingue da tutte le manifestazioni, feste di partito, sagre e fiere di paese. La sua caratteristica è una proposta che attira 700 mila visitatori, soprattutto giovani, che vi trovano la possibilità di ripetere, in qualche modo, l’esperienza nata nel 1954 da don Giussani. Quello del Meeting è il suo popolo. Un popolo vario che si muove dentro l’enorme Fiera di Rimini, dal giovane con la scritta sulla maglietta: “Dio c’è, ma non sei tu, rilassati”, alla donna in carriera con collane e tacchi a spillo, alla ragazza con la maglietta rossa delle volontarie, sdraiata a terra perché esausta dalla fatica. È un popolo che non segue i politici di turno, attorniati dal solito crocicchio di giornalisti, ma che preferisce affollare l’auditorium per ascoltare la storia di padre Aldo Trento, un prete in crisi che simpatizza per Potere Operaio. Rimane affascinato da un incontro con Comunione e Liberazione a Padova nel 1987. Nonostante una depressione e altre complicazioni sentimentali, don Giussani, con grande amore e lungimiranza, lo manda in missione in Paraguay. Lì padre Aldo costruisce, nella sua parrocchia di Assuncion, una scuola ed un ospedale per malati terminali. Oggi vi operano più di cento persone pagate dal Governo e centinaia di volontari.
In un semplice salottino della Fiera incontriamo Giancarlo Cesana, da anni leader di Comunione e Liberazione per tracciare un primo bilancio del Meeting.
Il tema della 29a edizione del Meeting è stato: “O protagonisti o nessuno”. Quale indicazione è emersa dai giorni di riflessione?
«Il Meeting è soprattutto una proposta educativa per le nuove generazioni. È emerso che il protagonismo non è quello scintillante delle stelle del cinema, ma la capacità di vivere. Abbiamo ripreso una bellissima immagine usata da don Giussani durante l’incontro dei movimenti a Pentecoste ’98: in quell’occasione egli disse che «il protagonista della storia è il mendicante». Nella vita, a volte, tutto sembra concentrato sulle proprie energie, sulle proprie capacità, mentre l’importante è saper chiedere, saper domandare per imparare. Il protagonismo è essenzialmente questo atteggiamento di saper domandare. Con la coscienza che Comunione e Liberazione è questa compagnia in cui i giovani possono chiedere. Inoltre sono molto importanti le testimonianze di gente semplice che con il loro sacrificio mostrano più di tante parole e di quelli che sembrano facciano chissà cosa».
Siamo nella società dell’immagine e dello spettacolo, sappiamo bene cosa significhi essere protagonisti: notorietà, fama, ricchezza, successo. Che cosa significa per un cristiano riuscire nella vita ed avere successo?
«Secondo me significa avere il gusto di vivere. Trovare soddisfazione. Gli apostoli seguivano Gesù per questa grande convenienza umana che era la sua presenza in mezzo a loro senza capire bene neanche chi fosse. Quando stavano con lui la vita aveva un sapore molto più profondo di quando erano soli».
Come conciliare umiltà e l’essere protagonisti?
«L’umiltà è di chi sa che deve domandare e il protagonismo è anche la padronanza della vita. La vita, però, non l’abbiamo fatta noi, bisogna avere il punto di vista di chi è il vero “padrone”. Riconoscere questa dipendenza da Dio è l’umiltà».
Nella mostra “Libertà va cercando, ch’è si cara. Vigilando redimere” documentate come anche nel mondo dei carcerati si può essere protagonisti, perché?
«Perché si è consapevoli del proprio valore che è maggiore del proprio errore e dei propri limiti. Al Meeting ha presentato la sua esperienza Vicky. Era la prima volta che usciva dall’Africa. È venuta qui ed ha parlato davanti a 10 mila persone, con una capacità di essere protagonista che è sconosciuta a molti. La sua vita, era malata di Aids con il volto coperto di pus, è ripartita quando ha incontrato Rose, che le ha detto: “Tu hai valore più delle piaghe che hai addosso”».
Che significa vivere da cristiani oggi? Protagonisti o rischio marginalità?
«Sicuramente essere protagonisti. Vivere da cristiani significa seguire Gesù in tutti gli interessi della vita, fino al punto di farsi determinare da Gesù anche negli interessi della vita. E questa è una scelta da protagonisti».
C’è rischio di marginalità in Italia?
«C’è nella nostra società una forte impronta secolarizzata. Ma dove è più evidente è in Europa ed anche nell’Unione europea, dove si tagliano la propria storia e la propria cultura, le proprie radici cristiane. È importante riconoscere però come il popolo italiano non abbia rinunciato alle proprie radici. La dimostrazione per me più evidente c’è stata durante i funerali per i caduti di Nassiriya, dove si è avuta la dimostrazione che l’Italia ha un fondo cattolico non cancellabile».
Come non perdere la misura alta dell’esistenza?
«Ci vuole un richiamo, ci vuole una compagnia, da soli non ci si riesce, non si può essere cristiani da soli. Si è cristiani se si è in unità con altri cristiani, se si accetta la loro presenza come richiamo, come testimonianza, come amicizia. Se si sta in compagnia, ci si aiuta e si vedono negli esempi degli altri un ideale così alto, basti pensare qui al Meeting all’esperienza di Rose, di padre Aldo Trento, che è così luminoso e accecante che bisogna essere ciechi per non vederlo».
Nella prospettiva di una crescente collaborazione tra movimenti, c’è modo che tutti si sentano protagonisti di questa nuova stagione?
«Credo che il modo più semplice è che l’autorità ecclesiale valorizzi queste presenze che sono nate spontaneamente dentro la Chiesa, come i Focolari, come Cl. Non vogliamo essere sentiti come una propaggine non necessaria, ma come un dono di Dio, un fatto essenziale per la comunità cristiana».
Cesana, quando è che lei è diventato un protagonista?
(Ride). «Mi sono sempre sentito un protagonista per il modo con cui mi hanno accolto mio padre e mia mamma. I miei genitori hanno sempre avuto una grande stima per me e questo mi ha fatto sentire voluto bene. Poi il rapporto con don Giussani, l’ho incontrato la prima volta nel 1971, mi ha fatto sviluppare questa coscienza arricchendola di significati».
Nella sua vicenda personale, c’è la dolorosa scomparsa di sua moglie in un incidente stradale. Come ha vissuto e come vive questo sacrificio che Dio le ha chiesto?
(Lungo silenzio). «È una mancanza che nel tempo cresce sempre, perché è una compagnia che è venuta meno. Però la mancanza fa capire molto bene quello di cui c’è veramente bisogno. Fa capire e fa guardare con più attenzione a ciò che è presente. In questo senso la mancanza di mia moglie mi fa percepire più acutamente l’affetto, la compagnia che mi è stata data, e “vedere” tutte le persone che mi sono state particolarmente vicine».