Nuovo governo: ampio sostegno alla Camera

Programmi ambiziosi in tutti i campi, dal fisco al lavoro, ma sarà in grado questa maggioranza di porre mano alle questioni strutturali che bloccano il Paese? Fiducia ottenuta anche al Senato con 233 voti favorevoli, 59 contrari e 18 astensioni
Il governo Letta alla prova della fiducia in Senato

Elegante, competente, politicamente corretto. Il nuovo presidente del Consiglio ha trasmesso un’immagine all’altezza della situazione, presentandosi davanti alle Camere e al mondo intero per il voto di fiducia al governo nato sotto l’egida del presidente Napolitano. Un voto che alla Camera è arrivato compatto, sommando quasi integralmente il consenso dei gruppi Pd, Pdl e Scelta civica: la strana eppur ineluttabile maggioranza di nuovo all’opera, ma in versione politica e quindi ancor più eccezionale.

Bisogna però guardare al di là dell’immagine, ai contenuti. Il discorso del presidente non ha l’aria di esprimere un governo “di scopo”: al contrario, è apparso un governo di legislatura, con programmi ambiziosi in ogni ambito: lavoro, fisco, welfare, riforme, senza tralasciare l’Europa e le sue prospettive evolutive. Soprattutto, è apparso un programma terribilmente costoso. Non si può essere che d’accordo con l’intenzione di sostenere le imprese per favorire la più ampia occupazione a tempo indeterminato (a partire da giovani e donne); di risolvere “strutturalmente” la questione degli esodati; di investire su tecnologia e ambiente; di annullare il divario Nord-Sud; di riformare il welfare puntando ad un nuovo universalismo; di estendere gli ammortizzatori sociali al precariato; di alleggerire il fisco a partire dalla casa e tanto altro ancora. Interventi a tutto tondo persino necessari, se è vero, com’è vero, che «di solo risanamento l’Italia muore». Ma se questi interventi salvavita non sono stati intrapresi sinora, la banale ragione risiede nel fatto che non ce li siamo potuti permettere. Gravati da una pressione fiscale record e da un debito pubblico stratosferico, le risorse per investire e per sostenere la crescita non si sa dove reperirle. Tanto più che si tratterebbe di 70-80 miliardi. Il presidente ha specificato che non cresceranno né debito né fisco, ma non ha fornito elementi ulteriori. Certo, sappiamo che al ministero dell’economia siede un signor tecnico, conoscitore come pochi del bilancio pubblico e sicuro depositario di qualche piano segreto (un fondo col patrimonio pubblico?).

Ma qui torna utile una premessa fatta dal presidente Letta in apertura del suo discorso, la necessità di parlare «il linguaggio sovversivo della verità». Questo linguaggio, sul punto, ci dice che la via maestra per liberare risorse è quella del risparmio: ridurre la spesa da una parte e destinare ad altra. Ma tagliare e contemporaneamente mantenere la crescita vuol dire una cosa sola: incidere sulla spesa improduttiva, quella che serve a foraggiare un sistema di consenso malato e spesso corrotto. Bene l’accenno fatto dal presidente Letta al superamento dell’attuale disciplina sul finanziamento pubblico dei partiti; bene quello all’alleggerimento dei livelli istituzionali con l’abrogazione delle province; ottima la soppressione del doppio stipendio per i ministri che hanno un seggio in Parlamento (misura simbolica ma sacrosanta in tempi di crisi).

Il problema tuttavia è strutturale e richiede una profonda, autentica, riforma della rete della pubblica amministrazione, che deve tornare ad essere per quantità e qualità colonna vertebrale della nazione, fornitrice di servizi e di legalità. L’abnormità del debito pubblico è frutto della reciproca contaminazione tra politica, intesa come gestione di consenso e potere fino alla ruberia, e pubblica amministrazione che anziché fungere da barriera se ne è fatta attuatrice. Potrà la strana e politica maggioranza porre mano a queste distorsioni e a intraprendere davvero la strada della moralizzazione pubblica, premessa di ogni crescita e giustizia sociale? I dubbi sono leciti.

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