Nuovo cinema del disagio

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Venti film in concorso, otto fuori concorso, sei negli “Eventi speciali”, diciotto nella sezione “Un certain regard” e venticinque nella “Quinzaine des réalisateurs”. Queste cifre, con quasi settanta film soltanto nel programma ufficiale, la dicono lunga sulle intenzioni del Festival di Cannes, che rivendica la parte del Re Leone dando spazio a tutte le tendenze: dal film d’autore a quello per le grandi platee, dal film sperimentale alle piccole cinematografie. Perché della globalità culturale la rassegna francese ha fatto la propria bandiera. E sgombrando subito il campo da un equivoco: sulla Croisette non tira aria antiamericana. Se così non fosse non si sarebbe cominciato con The Matrix Reloaded di Andy e Larry Wachowski, che della filosofia di Hollywood incarna la quintessenza spettacolare, tutta imperniata su un cinema delle meraviglie e degli effetti speciali. Niente di più. Ma, scacciato dalla porta, il sospetto dell’antiamericanismo (quest’anno potenziato dall’attrito creatosi fra Parigi e Washington in merito all’intervento in Iraq) è rientrato dalla finestra e lo ha fatto con più film tutti candidati a contendersi la vittoria finale. Il più gettonato dal pronostico era Dogville di Lars von Trier (autore di Le onde del destino e Dancer in the dark), film rivoluzionario dal punto di vista del décor in quanto abolisce ogni scenografia e lascia spoglia la scena, ma anche film dai forti contenuti polemici, perché dietro l’immaginaria città in cui trova rifugio la protagonista Nicole Kidman si nasconde l’America d’oggi che von Trier rappresenta come ipocrita, intollerante, incapace di comprensione e solidarietà. A questo apologo la giuria ha preferito i toni espliciti di Elephant di Gus Van Sant (il regista di Will Hunting genio ribelle e Scoprendo Forrester), dove l’indice si punta contro il buio che oscura la mente, contro l’irrazionalità della violenza giovanile e l’enigma dell’atto gratuito che devastano il cuore dell’America turbando la coscienza collettiva. Come aveva già fatto Michael Moore nel documentario Bowling a Colombine, premiato con l’Oscar, anche Gus Van Sant torna nel liceo di Colombine che fu teatro dell’assurda strage compiuta da due studenti. Con piglio esclusivamente fenomenologico Gus Van Sant ricostruisce i fatti, li espone freddamente e li affida ai perché dello spettatore senza avanzare alcuna ipotesi. Con l’evidente intento di stimolare il giudizio gioventù” dell’opinione pubblica costringendola a interrogarsi sul fatto. Spazio al cinema americano, dunque, ma a quello ferocemente autocritico. Così come è autocritico nei confronti del continente nord-americano Le invasioni barbare del francocanadese Denys Arcand, premio per la miglior sceneggiatura e per la miglior interprete femminile, Marie- Josée Crooze. Denys Arcand riprende personaggi e interpreti del precedente Il declino dell’impero americano (1987) per coglierli nell’attualità del momento, che è quella di una riflessione ironica e provocatoria sui nuovi barbari che oggi minacciano la sicurezza dell’ “impero”: l’Aids, la Sars, l’islamismo, l’immigrazione clandestina. Il pericolo viene da oriente e dal Terzo mondo, dunque, e a questi agenti provocatori Cannes ha inteso attribuire il suo riconoscimento attraverso il Gran Premio e il Premio della Giuria. Il primo, insieme alla Palma per il miglior attore attribuita exaequo ai due protagonisti maschili, è stato assegnato a Uzak (Lontano) del turco Nuri Bilge Ceylan, storia di un giovane disoccupato che arriva a Istanbul in cerca di un lavoro e di una sistemazione. L’atmosfera e l’impianto appartengono alla lezione del neorealismo, alla quale si aggiungono sottili notazioni umoristiche e delicati tocchi lirici finemente intrecciati fra loro. Anche il Premio della Giuria ha imboccato la strada dell’Asia mediorientale con Alle cinque della sera della ventitreenne iraniana Samira Makhmalbaf, film che riprende il tema di Viaggio a Kandahar, diretto dal padre Moshen: il dramma delle donne afghane che si perpetua anche dopo la caduta del regime talebano con l’isolamento di cui continuano a essere prigioniere a causa di costumi condizionati dal pregiudizio. Due film poveri di mezzi, ma ricchi di sensibilità poetica. Che potrebbero moltiplicarsi cento e più volte con quel che è costato The Matrix Reloaded. E anche questa è una nota polemica partita dalla Croisette all’indirizzo dell'”impero americano”.

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