Nuovi ticket in arrivo

Un’analisi sulla riforma dei Livelli essenziali di assistenza, ossia le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale si impegna a garantire, fra etica del sistema e polemiche sui costi
Due signore in ospedale

La riforma dei Livelli essenziali di assistenza che si intraprendendo in queste settimane (il via libera della Conferenza Stato Regioni è del 7 settembre scorso) contiene molti elementi innovativi e costituisce, da tanti punti di vista, un passo in avanti verso l’equità e la tutela dei cittadini più deboli.

 

Come noto i Lea sono le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale si impegna a garantire a tutti coloro che vi sono iscritti, in maniera gratuita o con una compartecipazione della spesa (nota come “ticket”); ciò che è nei Lea costituisce quindi non tanto una base minima, ma un “pacchetto” di servizi e prestazioni considerato ottimale per tutelare la salute, ciò che bisogna garantire per stare bene: è il significato da dare alla parola “essenziale” dell’acronimo.

 

Per questo motivo i Lea devono essere periodicamente rivisti, in modo da tener conto delle modifiche dei bisogni di salute della popolazione, sia perché l’offerta di servizi e prestazioni sia coerente con le nuove tecnologie e le possibilità di cura rese disponibili dal progredire delle conoscenze scientifiche.

 

L’attuale proposta di riforma, molto attesa (l’ultima revisione dei Lea è del 2012) si caratterizza per una maggiore attenzione alle patologie rare e per l’inserimento di una serie di servizi “socio-sanitari” a tutela della disabilità, dell’emarginazione e delle nuove fragilità legate al drammatico diffondersi delle dipendenze (alcool e gioco d’azzardo in testa). 

 

Interventi importanti, che vanno nella giusta direzione, ma che richiedono un attento esame degli investimenti necessari perché tali provvedimenti non rimangano, come si dice, sulla carta: dichiarare che tutti i cittadini hanno diritto a un servizio efficiente e adeguato alle nuove tecnologie non significa automaticamente avere le carte in regola per realizzarlo ovunque e in maniera uniforme.  Dopo le richieste, pervenute dalle Regioni, sulle garanzie per la disponibilità certa delle risorse necessarie ad applicare i nuovi servizi, la discussione si allarga alla scelta di “spostare” l’appropriatezza di alcune prestazioni dal regime di ricovero ospedaliero diurno (c.d. “day surgery”) a quello ambulatoriale, modalità per la quale, come noto, si corrisponde un ticket.

 

Una scelta che nasce dalla semplificazione, dovuta a un aumento delle capacità tecnologiche e dalla riduzione dell’invasività delle tecniche chirurgiche, ma che (ed è un fatto) consente di erogare un servizio con meno costi fissi, in parte coperti dal ticket degli utenti.

 

D'altro canto, a tutti piace dire che bisognerebbe potersi curare gratis: ma poi chi paga i professionisti, le tecnologie, le strutture, i farmaci? E chi sceglie, se non si vuol pagare, con quali criteri distribuire le (poche) prestazioni di alta specialità che riusciamo a finanziare con la fiscalità generale?

 

Una questione che intreccia etica del sistema e bene comune, e che si apre necessariamente a concetti come la sobrietà nella gestione di tecnologie inutilmente dispendiose, in un'ottica di decrescita volontaria per concentrare le risorse verso interventi di prevenzione di malattia. Per non parlare dell’imparzialità delle scelte sulla priorità di allocazione dei finanziamenti e della ricerca.

 

Al di là delle facili strumentalizzazioni e dei proclami, è necessario ricordarci come la tutela del servizio sanitario è molto complessa, ma parte dall’etica del quotidiano e riguarda le scelte, anche le più piccole, di tutti noi.

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