Nuovi legami tra Russia, Cina e Medio Oriente
La settimana scorsa il presidente americano Donald Trump ha chiesto la riammissione della Russia al tavolo del G7, che secondo lui dovrebbe ridiventare G8, come era stato fino al 2014, quando Mosca fu appunto estromessa dal tavolo delle grandi potenze come ritorsione per l’annessione della Crimea, con relative sanzioni.
Alla proposta di Trump, a parte l’appoggio del premier italiano Conte, sono seguiti il dissenso di Macron, del presidente del Consiglio europeo, del segretario generale della Nato, quello della cancelliera tedesca e via dicendo. Ma il rifiuto più sorprendente alla proposta di Trump l’ha espresso il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov: «La Russia si concentra su altri formati», è stata la laconica risposta del rappresentante russo. Della serie: «No, grazie, non ci interessa proprio, abbiamo altro per la testa».
Forse la Russia non escluderebbe la partecipazione al G20, ma è soprattutto interessata, a quanto pare, al “formato” asiatico della Sco, (Shanghai Cooperation Organization, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), alla quale partecipa insieme alla Cina. Il giorno dopo, infatti, il presidente russo Vladimir Putin è volato a Qingdao (Cina meridionale) dove si stava inaugurando il meeting della Sco, il gruppo intergovernativo a leadership cinese che ha registrato lo scorso anno un promettente sviluppo con le importanti adesioni di India e Pakistan, che si aggiungono ai 5 Paesi fondatori (Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tajikistan) e all’Uzbekistan, che ha aderito nel 2001.
Al vertice di Qingdao, una presenza di non poco conto è stata quella del presidente iraniano Hassan Rohani, in quanto leader di un Paese osservatore che potrebbe diventare presto membro effettivo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che, oltre agli otto Paesi membri, ne annovera altri 13 ufficialmente interessati a vari livelli alla proposta: 4 come osservatori (Iran, Afghanistan, Bielorussia e Mongolia), 6 come partner (Turchia, Azerbaijan, Armenia, Nepal, Sri Lanka, Cambogia), e 3 come ospiti (Siria, Egitto e Taiwan).
Diversi osservatori occidentali considerano la Sco una sorta di anti-Nato asiatica, ma essa non è un blocco militare come la Nato (pur avendone quasi i numeri), non ha una cassa comune a fini bellici e non è vincolata a intervenire se un aggressore esterno attacca uno dei Paesi membri. L’Organizzazione concorda, invece, comuni prospettive economiche e di sviluppo, linee di sicurezza, di lotta al terrorismo e al narcotraffico, e di cooperazione anti-crimine.
Due considerazioni sono interessanti dal punto di vista mediorientale: la prima è un possibile inserimento graduale nella Sco di diversi Paesi dell’area, in senso lato: così l’Iran (in qualche modo obbligato a cercare sinergie per fronteggiare le minacce antinucleari statunitensi), ma anche Turchia, Afghanistan, Azerbaijan e Armenia, perfino Egitto e Siria. La seconda considerazione è l’interesse dei Paesi che orbitano intorno alla Sco, in particolare di quelli mediorientali, al progetto cinese denominato “nuova via della seta”, o anche One belt and one road (Obor), che mira a collegare via terra e via mare il commercio fra Asia ed Europa, coinvolgendo anche Paesi dell’Africa nord-orientale. Un progetto infrastrutturale di enorme portata e respiro, dove certamente la Cina ha molto da guadagnare, ma che non si presenta seguendo la logica capitalistica buy-sell (io compro-tu vendi), ma con lo stile win-win (io vinco-tu vinci) che caratterizza l’approccio cinese alla cooperazione, dove i partner hanno tutto l’interesse e la convenienza a partecipare all’impresa insieme allo sponsor.
In Siria, l’intervento militare russo, com’è noto, ha impresso una svolta alla guerra, nel senso di un sostegno decisivo al governo Assad e alla ricomposizione del Paese. Anche se meno evidente, si può però dire che l’appoggio della Cina al governo istituzionale siriano, accanto alla Russia, non è da meno. La tradizionale politica cinese di non intervento non esclude infatti un notevole interesse per il Medio Oriente: in Siria sono presenti militari cinesi in veste di addestratori della polizia e consiglieri sanitari; in Iraq le imprese cinesi hanno soppiantato quelle americane come principali acquirenti di petrolio. Insieme ai russi, i cinesi puntano soprattutto alla ricostruzione post-bellica dei due Paesi mediorientali ed hanno già stanziato parecchie risorse finanziarie (miliardi di yuan, rubli o dollari che siano) a questo scopo.
Non sarà certo difficile, dopo, che la nuova via della seta (quella terrestre) passi da Teheran, Baghdad e Damasco. E questo sembra attirare non poco iraniani, iracheni e siriani, ma lascia anche immaginare un’ulteriore inquietante polarizzazione fra opposte potenze, quelle che peraltro si stanno già scontrando più o meno indirettamente in Siria.