Nuove strade per un mondo più verde

L'osmosi inversa, che permette di ottenere acqua dolce da quella salata, sta iniziando a causare problemi nel Golfo Persico, dove da anni si riversano gli scarti del processo, generando un'acqua sempre più salina. Appare sempre più necessario tassare l'impatto delle attività umane sull'ambiente
Golfo Persico

Se oggi in Arabia Saudita e negli Emirati gli sceicchi possono godersi giardini ricchi di piante tropicali e prati verdi, lo devono alla “osmosi inversa”, tecnologia che permette di ottenere acqua dolce dall’acqua di mare senza grandi e costosi evaporatori: essa si basa sul fatto che le soluzioni diverse di sali tendono ad equilibrare le loro concentrazioni: se sono separate da una membrana permeabile solo all’acqua, questa vince la gravità e si sposta verso la soluzione più salina finché la pressione dovuta al dislivello idrostatico diventa uguale alla cosiddetta pressione osmotica.

 

Una proprietà fisica utilizzata da molti meccanismi della vita: se le sequoie riescono a far salire la linfa dalle radici fino a cento metri d’altezza è grazie alla pressione osmotica: ad essa è collegato il funzionamento delle membrane dei nostri reni e l’aumento della pressione sanguigna se si mangia salato.

 

Se ci si oppone alla pressione osmotica con una pressione più alta, si induce l’acqua della soluzione salina a migrare verso l’acqua dolce: pompando ad alta pressione acqua marina in tubi porosi, l’acqua passa attraverso i pori e diventa acqua dolce, lasciando nel tubo una miscela concentrata di acqua e sali che poi si scarica in mare: di impianti simili se ne costruiscono di sempre più imponenti nelle zone marine aride, in particolare in California le cui bellissime valli si stanno inaridendo con i cambiamenti climatici.

 

Il versamento di residui concentrati di sali nell’Oceano pacifico al momento non è un problema, invece lo è diventato nel Golfo Persico dopo decenni di versamenti da tutti i Paesi che si affacciano su di esso: la sua acqua diventa sempre più salina e per estrarre da essa acqua dolce occorre aumentare sempre più la pressione delle pompe e il consumo di energia degli impianti.

 

Questa nuova emergenza fa riesumare un vecchio processo chimico della Solvay: calcinando carbonato di calcio (roccia calcarea, marmo e travertino), si ottiene calce viva e si sviluppa anidride carbonica, che se fatta gorgogliare con ammoniaca in acqua di mare, trasforma il sale marino in bicarbonato sodico e cloruro di ammonio in soluzione. Trattando la soluzione con la calce viva, si ricupera l’ammoniaca e si produce cloruro di calcio, utilissimo quale anticongelante, anche stradale.

 

Si producono quindi due prodotti chimici, bicarbonato sodico e cloruro di calcio, entrambi in forma solida, perché la soluzione di cloruro di calcio si può far evaporare in saline fissando al suolo l’anidride carbonica emessa dalla produzione della calce viva necessaria al processo.

 

Un simile processo, certamente necessario per risolvere i problemi del Golfo Persico, potrebbe essere adottato anche altrove, ma forse non risulterebbe conveniente, almeno fino a quando non si troverà il modo di valorizzare il costo dell’impatto ambientale delle attività umane, tra cui lo scarico di sali in mare.

 

Che questo costo esista e sia salato ormai lo sanno tutti, ma per renderlo un fattore che conti in economia occorre valorizzarlo, ad esempio imponendo una “carbon tax”, che faccia pagare a ciascuno il costo delle emissioni che provoca bruciando carbone, petrolio, gasolio, benzina e gas.

 

Negli Stati Uniti il presidente Obama ci ha ultimamente provato, ma il suo Parlamento ha votato contro la legge che avrebbe deciso un'imposta di dieci dollari per barile, sei centesimi per litro, sul prezzo della benzina: evidentemente la consapevolezza dell’urgenza ambientale non è ancora abbastanza diffusa.

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