Nuove frontiere per il lavoro. Oltre la notte
Abbiamo pubblicato su Città Nuova un’analisi appassionata della crisi attuale del sindacato da parte di Stefano Biondi, per molti anni segretario in Toscana della Fiba Cisl. Biondi, assieme ad Antonella Galluzzi della Cgil, è il referente dell’associazione di cultura sindacale “Made in the world”, che propone la riscoperta dell’impegno di rappresentanza dei lavoratori non tanto come una professione, ma come una vera e propria vocazione.
Partiamo da questa istanza per porre alcune domande a Marco Bentivogli, segretario generale dei lavoratori metalmeccanici della Cisl, una federazione che va sempre più nella direzione di cercare alleanze nella società. Dall’impegno a favore delle imprese libere dal controllo mafioso alle scelte di consumo critico condiviso con le associazioni di Retinopera, fino all’adesione al movimento Slot Mob che parte dall’azzardo per ribaltare il potere della finanza sulla società. Bentivogli ha espresso questa nuova linea in un libro appena pubblicato da Castelvecchi con un titolo emblematico: Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato.
Il titolo del suo libro parte dall’accusa dei nemici storici del sindacato, e cioè di coloro che non gradiscono seccature nel rapporto diretto e diseguale con i lavoratori non organizzati…
«È vero, sul sindacato si sprecano i luoghi comuni e oggi parlare di sindacato, ed essere sindacalisti ogni giorno, pare non essere più di moda. Nel libro che ho scritto parto appunto da queste critiche, per esaminare con sincerità i limiti che ci sono realmente stati, ma anche per mettere in luce le tante cose buone che il sindacato ha fatto fin dalle sue origini, soprattutto durante il difficile periodo della crisi economica. Parlo anche di valori, della nostra società.
A guardare bene, quello del sindacalista è un "mestiere" che amo definire “il più bello del mondo” perché porta avanti dei valori che devono tornare ad essere al centro non solo dei pensieri, ma anche delle azioni di tutta la società. La solidarietà, l’integrazione, l’inclusione sociale e soprattutto il protagonismo delle persone nel lavoro sono forse cose da buttare?».
Ma oggi la classe dirigente del sindacato sembra frutto di una nomenclatura autoreferenziale senza più rapporti diretti con chi si trova dentro le contraddizioni del lavoro globalizzato. Che fare?
«Certo, non sempre il sindacato si è dimostrato all’altezza di queste sfide in passato, e in alcune occasioni non è stato capace di anticipare i cambiamenti e di rinnovarsi, per intercettare tutti coloro (soprattutto i giovani) che se ne stavano allontanando sempre di più.
Tuttavia, dobbiamo decidere che tipo di società vogliamo per il futuro, se una società di uomini senza speranza in perenne conflitto tra loro per una torta di risorse date o in calo, o una società di persone innovative e in relazione tra loro che riscoprono la fiducia nel progresso e nel futuro perché sanno valorizzare i loro giacimenti di cooperazione, generosità, fiducia e capitale sociale, per generare fraternità e produrre fertilità sociale ed economica.
Ecco, il sindacato di cui non si può fare a meno è proprio questo, il sindacato che recupera la propria spinta originaria e attraverso il quale i lavoratori possono essere protagonisti, consapevoli e responsabili, nel lavoro che svolgono. Un sindacato come “luogo aperto”, dove liberamente dire la propria. Che custodisca quel “vuoto promettente” che è la libertà, come precondizione della generatività sociale».
Cosa significa in concreto?
«Un buon sindacalista, del presente e del futuro, deve saper stare tra le persone, non lasciarle mai sole, soprattutto nei momenti di difficoltà. Ma deve anche studiare, approfondire i cambiamenti del lavoro di quella che viene definita la Quarta rivoluzione industriale, cambiamenti che si possono affrontare e gestire solo con una vera partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali».
Sembra una prospettiva del futuro ma per molti giovani è anche solo impensabile iscriversi al sindacato. Sembra assente dal loro orizzonte, non solo per paura…
«Oggi, quando si parla dei giovani, se ne parla spesso come di un’entità astratta, scollegata dalla realtà dell’impegno civile, quasi che ne fossimo disinteressati. Non è così. Certo, la “genitorialità” ha bisogno di manutenzione, ma i giovani sono una miniera insostituibile, sentono un forte bisogno di impegnarsi, di esprimersi, di dire la loro da protagonisti, e non come “veline” o “comparse” o “supporter” di chi parla di loro ma non gli cede mai spazio. I giovani devono impadronirsi della partecipazione sindacale, senza “replicare” le generazioni precedenti».
Ci sono esperienze in tal senso?
«Il sindacato deve essere capace di intercettare questo bisogno e dare loro spazio per cambiare. Per esempio, nella mia categoria, la Fim, i metalmeccanici della Cisl, abbiamo sempre più giovani, i “millenials di fabbrica”, che hanno tutele più deboli dei predecessori ma stanno riscoprendo, su basi nuove, impegno e attivismo. Sono generazioni che si entusiasmano per le nostre iniziative di impegno sociale e ci danno una mano a diffonderle, anche attraverso i nuovi strumenti di comunicazione.
È necessario che il sindacato recuperi un forte ruolo educativo, che significa anche informare e prendere posizione su temi di forte impegno civile e sociale».