I numeri del Pnrr non dicono tutto
Chi ha vissuto nell’Europa del nord sa bene che nulla manda in bestia gli abitanti della parte più fredda del vecchio continente degli atteggiamenti non rigorosi degli abitanti della sua parte più calda. Anche ora ci risiamo, colpa del Pnrr italiano che fatica a essere accettato per le resistenze di Finlandia, Olanda, Germania e via dicendo, che non tollerano che il rigore non sia virtù primaria al sud. Il Covid ci aveva permesso di far decantare le tensioni usuali, anche perché i Paesi del sud dell’Unione nel periodo della pandemia avevano raggiunto risultati dapprima meno peggiori e poi molto più positivi rispetto alla media europea.
Fiumi di inchiostro sono stati versati per cercare di spiegare il fenomeno. I più “freddi” analisti hanno attribuito tali risultati superiori alle aspettative al fatto che le economie del sud erano partite in genere da posizioni inferiori rispetto a quelle del nord, e che quindi la crescita era stata più impetuosa perché atta a colmare un distacco evidente e persistente. Gli analisti più “caldi” avevano invece sottolineato come i Paesi del sud, in particolare proprio la nostra Italia, fosse più abituata a una vita meno agiata, e che quindi la pandemia non aveva poi complicato più di tanto la vita dei “sudisti”. Fior fiore di teorie economiche e di dati macroeconomici venivano sbandierati per argomentare tali tesi.
In realtà, la complessità delle nostre società sviluppate e ricche sono tali che non è facile capire il nocciolo della questione. Basti pensare a quel fattore di elevata influenza sui dati macroeconomici che è il clima: più fa caldo, meno importanza si darebbe all’efficienza economica e produttiva, e più fa freddo e meno si avrebbero ragioni per non lavorare. C’è del vero, ma non fino al punto da giustificare deduzioni automatiche: perché, allora, dopo la pandemia, i treni italiani sarebbero più puntuali di quelli tedeschi? E perché i formaggi italiani avrebbero surclassato quelli francesi nelle ultime classifiche europee e mondiali? Il clima non può spiegare tutto. Si parla allora della posizione di arretratezza dei servizi pubblici e privati in vari Paesi del sud, dovuti alla minor percentuale di laureati in materie scientifiche rispetto a quelle umanistiche. Anche qui, può esserci del vero, ma non tutto è spiegabile coi dati.
Difficile cogliere il bandolo della matassa, le argomentazioni potrebbero continuare all’infinito. Anche in politica si avverte che nella gestione della cosa pubblica la ricerca di coesioni e convergenze porta con sé un avvicinamento degli standard e nello stesso tempo un’analisi approfondita degli scarti tra diversi popoli e Stati. In questa analisi la presunta perfezione non può essere pietra di paragone realistica, perché ogni Paese fa del suo meglio, almeno in teoria. Salvi i dovuti controlli, è la reciproca comprensione che dovrebbe regolare i rapporti tra gli Stati: ciò è stato più evidente durante la pandemia, quando il mal comune ha obbligato tutti ad avere una sana misericordia nei confronti degli altri.
Il recente caso della riforma pensionistica in Francia fa capire che la comprensione non va solo nella direzione nord-sud, ma anche sud-nord: i francesi appaiono meno virtuosi dei compagni europei del sud, perché se i transalpini vanno in pensione a 60-62 anni, noi ormai ci andremo a 65-67 anni. Anche nelle relazioni internazionali entrano in gioco virtù e indole, anche nelle relazioni internazionali entra la reciproca comprensione, se non la reciproca misericordia. Non bastano i numeri a capire le nostre società. Non bastano le analisi quantitative, servono anche quelle qualitative.
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