Nubi sulla Chiesa in Cina
È noto che nella Cina comunista la Chiesa è viva, anche se non mancano le difficoltà…
«Sì, la Chiesa esiste in Cina ormai da secoli, anche se come piccola minoranza. Ma non fa meraviglia che oggi nella Repubblica popolare cinese, che è di fatto la più grande potenza comunista al mondo, dichiararsi cristiani e praticare la propria fede non sia cosa facile. La “Nuova Cina”, fondata da Mao Zedong nel 1949, ha preso a modello la legislazione dell’Unione sovietica, per cui ostenta tra le libertà concesse ai cittadini anche quella di poter “credere o non credere” in una religione. Ma, professando il marxismo-leninismo-maoismo, considera come cosa scientificamente certa che la religione – ogni religione – è destinata a scomparire automaticamente con il progredire della rivoluzione socialista.
«Fin dall’inizio quindi il regime ha inserito in ciascuna delle cinque religioni riconosciute, tra le quali il cattolicesimo, una “associazione patriottica” attraverso cui può “guidarle” secondo i propri interessi. La storia dei passati decenni è stata segnata da fasi di estrema durezza e persecuzione aperta, mentre in altri momenti, specialmente dopo la morte di Mao (1976), la Chiesa cattolica (come anche le altre espressioni religiose) ha potuto riprendere fiato e consolidarsi, pur fra mille persistenti difficoltà».
Come è maturata la situazione di emergenza che travaglia oggi la Chiesa in Cina?
«Una crisi vera e propria è scoppiata alla fine del 2010 e si è acutizzata nell’estate del 2011, tanto che non manca chi, tra gli osservatori e commentatori più attenti, non esita ad evocare il pericolo che possa maturare de facto una situazione di “scisma” dalla comunione con la Chiesa universale. E questo non per volontà dei fedeli, ma per le astute macchinazioni dell’apparato politico, cioè del Partito comunista (che indica i propri obiettivi attraverso il Dipartimento del Fronte unito) e del governo (che li realizza attraverso l’Agenzia statale per gli Affari religiosi): e in tutto questo, la copertura è offerta dall’Associazione patriottica dei cattolici, che fa apparire questa degenerazione come volontà dei cattolici stessi. La partita si gioca in pratica con il tentativo di appropriarsi dell’autorità dei nuovi vescovi di cui la Chiesa ha bisogno, condizionandone la scelta e l’ordinazione».
Come funziona in concreto questa politica del governo nei confronti della Chiesa?
«Con la scusa di applicare anche alle religioni il “metodo democratico”, hanno dichiarato che l’Assemblea dei rappresentanti cattolici del Paese è la suprema autorità della Chiesa in Cina, che non ha quindi bisogno di rivolgersi a Roma. Così hanno costituito (già nel maggio 1980) una conferenza di vescovi, che la Santa Sede non può riconoscere come Conferenza episcopale. Inoltre, per poterli meglio controllare, hanno creato una nuova formula (“un’Associazione e una Conferenza”), per cui tutte le decisioni più importanti devono avere l’approvazione congiunta anche dell’Associazione patriottica».
E qual è la posizione di Roma di fronte a questa pericolosa “invasione di campo”?
«Papa Benedetto XVI, per la Pentecoste del 2007 indirizzò a tutti i vescovi, sacerdoti e laici della Chiesa cattolica in Cina una lunga e importante lettera di incoraggiamento e di chiarificazione, in cui esprime anche tutta la sua ammirazione per il patrimonio culturale del popolo cinese. A proposito delle strutture sopra accennate (“che sono state imposte come principali responsabili della vita della comunità cattolica”), afferma esplicitamente che esse sono “inconciliabili con la dottrina cattolica”. Ma afferma anche il desiderio che tutti i problemi pendenti possano esser risolti con un dialogo costruttivo con le autorità dello Stato».
Ma già in passato il governo comunista aveva tentato di condizionare la scelta dei vescovi…
«Sì, fin dalla fine degli anni Cinquanta, dopo aver espulso tutti i vescovi missionari stranieri, il governo era riuscito a imporre l’ordinazione illegittima di numerosi vescovi. Ma quando la “cortina di bambù” cominciò ad allentarsi, la gran parte di questi vescovi erano riusciti a riannodare i rapporti con la Santa Sede. Nei due decenni seguenti, si sono registrati anche dei tentativi di dialogo a livello pratico tra Roma e Pechino, con risultati più o meno chiari. Ma, alla fine del 2010 le autorità cinesi hanno rotto una specie di tregua che sembrava prevalere, giungendo nell’estate del 2011 a imporre l’ordinazione episcopale di due candidati a Leshan (nel Sichuan) e a Shantou (nel Guandong), che Roma aveva chiaramente indicato non poter approvare. A questo punto, la Santa Sede non poté fare a meno di dichiarare che i due erano incorsi nella scomunica. E le autorità cinesi hanno reagito molto pesantemente, accusando il papa di ingerenza indebita negli affari interni della Cina».
Come vedi quindi il futuro della Chiesa in Cina?
«Oggettivamene parlando, è preoccupante. Ma sappiamo che nulla è impossibile a Dio, e che il Risorto non abbandona la Chiesa anche nell’ora della passione».