Novità e criticità della manovra
Per giudicare la manovra del governo per il 2019 mancano ancora informazioni su dettagli importanti, ma il varo della Nota di Aggiornamento al Def a inizio ottobre consente una valutazione di insieme relativa ai saldi di bilancio e alla loro coerenza con i vincoli europee.
A questo riguardo, non c’è dubbio che la Nota di Aggiornamento al Def rappresenti una discontinuità, ma tale discontinuità è più nell’indicazione di una direzione politica che nel peso reale dei numeri proposti.
I governi precedenti fissavano obiettivi ambiziosi di riduzione del deficit, ma tali obiettivi venivano sistematicamente disattesi e rimodulati alla luce della difficoltà di realizzare correzioni fiscali così marcate. Tutto avveniva negoziando con la Commissione, che concedeva flessibilità sulla base delle avverse condizioni economiche generali o a fronte della realizzazione di riforme strutturali in linea con le proprie raccomandazioni.
Se guardiamo al deficit (indebitamento netto) degli anni passati, troviamo valori di poco inferiori al 3%, in lenta riduzione fino al 2,4% a consuntivo del 2017 e al 1,8% previsto per il 2018. La fissazione di un deficit al 2,4% per il 2019, in calo negli anni successivi, non rappresenta dunque in alcun modo un fatto straordinario o di per sé dirompente.
La discontinuità è nel fatto che quest’anno il governo dichiari in anticipo che l’Italia non intende raggiungere il pareggio, per lo meno non nel prossimo trienno, e anzi scelga deliberatamente la strada dello stimolo fiscale per rilanciare la domanda interna.
Sono tra coloro che hanno dubitato fin dall’inizio dell’efficacia di azioni di rapido consolidamento fiscale ai fini della riduzione del debito pubblico, ritenendo che fosse preferibile una strategia più graduale, che tenesse in maggior conto l’esigenza di sostegno a domanda e occupazione. In questo senso, trovo apprezzabile che la Nota annunci «un cambiamento profondo delle strategie di politica economica e di bilancio», dando priorità alla ripresa della crescita e dell’occupazione e scommettendo su una riduzione del rapporto debito/PIL da realizzarsi con un aumento del denominatore, una riduzione forse più lenta ma meno costosa in termini sociali.
La prima reazione delle istituzioni europee, di molti commentatori e dei mercati finanziari è stata tuttavia molto negativa. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, organo indipendente dal governo che è chiamato a “validarne” stime e proiezioni, ha criticato una previsione eccessivamente ottimistica sulla crescita nei prossimi anni.
L’errore è in parte dovuto al fatto che l’economia italiana, diversamente da quanto previsto fino a pochi mesi fa, sta nuovamente rallentando, ma viene giudicata eccessivamente ottimistica anche la previsione sull’effetto delle manovre del governo sulla domanda interna e quindi sulla crescita.
Si tocca qui un punto molto controverso tra gli esperti: nel passato recente, ben poche previsioni sono state azzeccate e per lo più si è sbagliato sottovalutando l’effetto depressivo delle politiche di austerità sull’economia. Il fatto che il governo formuli le proprie politiche sulla base di stime che ipotizzano effetti più consistenti, e che coerentemente scelga di invertire il segno di tali politiche, esplorando una strada diversa da quella, scarsamente efficace, tentata finora, dovrebbe essere incoraggiato.
Se le previsioni risultassero corrette potremmo aspettarci, per effetto della maggiore crescita, anche una riduzione del debito pubblico in rapporto al Pil: il ministero dell’Economia prevede una riduzione dall’attuale 131% a un valore inferiore al 127% entro il triennio; una riduzione inferiore a quanto richiesto dai vincoli europei, ma comunque tale da proseguire lungo un sentiero di risanamento.
Accanto all’apprezzamento per la scelta di discontinuità descritta, si impongono tuttavia alcuni rilievi critici sull’impostazione della manovra, i cui principali provvedimenti sono: il disinnesco dell’aumento dell’Iva già previsto per gennaio 2019, l’introduzione del reddito di cittadinanza, la parziale revisione della Legge Fornero, la prima tranche della flat tax e la realizzazione di un piano di investimenti in piccole opere.
Sono interventi il cui costo complessivo si stima essere superiore ai 30 miliardi di euro. Visto che il maggior deficit supera di poco i 20 miliardi, mancano all’appello oltre 10 miliardi.
Nella Nota si accenna a coperture tramite un intervento sulle detrazioni fiscali e si conta su provvedimenti una tantum (e assai discutibili) come il condono fiscale, ma resta forte il timore che alla fine si possa ricorrere a dolorosi tagli di spesa, al momento non specificati.
Se poi i tagli si rivelassero politicamente non praticabili, il rischio è che il deficit possa lievitare sopra il 2,4, avvicinandosi o addirittura superando la soglia del 3%.
Un secondo ordine di dubbi e preoccupazioni riguarda il fatto che il grosso dello stimolo deriverebbe da un aumento della spesa corrente. È stato correttamente rilevato che un aumento del deficit sarebbe stato maggiormente giustificabile se utilizzato per finanziare gli investimenti.
Ciò avrebbe certamente rafforzato la posizione dell’Italia in una negoziazione con Bruxelles. Nella Nota il governo dà grande enfasi al tema degli investimenti, ma le somme che vi destina sono assai limitate (0,2% del Pil nel 2019, 0,3% nei due anni successivi).
Assai preoccupante appare inoltre l’intervento previsto in materia tributaria. Si è parlato molto di flat tax, ma il primo intervento previsto va in una direzione che contraddice la logica della semplificazione del sistema: si tratta di un ampliamento dell’area di applicazione del regime fiscale speciale attualmente previsto per i lavoratori autonomi e le imprese di più piccola dimensione.
Insomma, un altro spiacevole esempio di quella politica dei “bonus” a favore di categorie specifiche di contribuenti cui ci hanno purtroppo abituato anche gli ultimi governi. Il provvedimento, pur avendo un impatto limitato sul bilancio, rischia di assestare un ulteriore decisivo colpo alla coerenza del nostro sistema fiscale.
Un’ultima critica riguarda il modo in cui il governo ha gestito anche mediaticamente l’annuncio della manovra. Il piano presentato, pur essendo in chiara violazione delle regole europee, non è irragionevole, e avrebbe potuto diventare l’occasione per ridiscutere l’insieme dei vincoli coi Paesi partner.
Per una rottura in caso di irrigidimento della Commissione c’era sempre tempo, ma il governo ha scelto di rispondere alle prime reazioni negative alzando il livello dello scontro, anche al fine di capitalizzare consensi in vista delle elezioni europee.
Il nervosismo dei mercati non riflette tanto la sostenibilità del debito italiano, che non è in discussione, quanto l’avvio di una fase di aperto conflitto tra Italia e istituzioni europee, che aumenta le spinte centrifughe nell’Unione. La reazione dei mercati riflette insomma la sfiducia nella tenuta complessiva dell’eurozona, e incorpora il rischio di una sua possibile rottura, che può avere come epicentro proprio l’Italia.
Non si tratta di una situazione irrecuperabile, ma da parte di tutti occorrono saggezza ed equilibrio, per evitare che la situazione sfugga di mano.