Nove campi profughi stanno per chiudere

Raccoglievano oltre 130 mila persone di etnie varie provenienti dal Myanmar fuggite dalla guerra; ma ora, terminate le ostilità, il governo non ha più intenzione e interesse a mantenerli aperti. Si prevede però che dopo il rientro in patria, questi ritorneranno in cerca di lavoro, e tutti lo sanno...
Vita nei campi profughi in Thailandia

Ora la notizia è ufficiale, data dal capo di Stato maggiore thailandese nonché capo del governo militare attualmente al potere in Thailandia (dopo il colpo di Stato del maggio scorso): i 9 campi profughi al confine tra Thailandia e Myanmar saranno presto chiusi, e la gente rimandata in Myanmar. Il generale thailandese, Prayuth Chan-ocha dopo un incontro col comandante supremo delle forze armate del Myanmar, generale Min Aung Hlaing, ha dato ai media questa notizia pochi giorni fa. Ricordo che anche in Myanmar, che ha un governo cosiddetto “semicivile”, i militari hanno un ruolo predominante: pertanto è stata una decisione presa tra militari per una volta di unanime accordo.

Si sapeva da tempo e la notizia girava nei campi da almeno un paio d’anni: per questi centri, sparsi dall’estremo nord-ovest fino al centro della Thailandia, stava per arrivare il tempo della chiusura definitiva. Dal 1984, anno in cui hanno iniziato ad esistere, questi campi hanno accolto persone che fuggivano dalla guerra tra le truppe del governo centrale del Myanmar e le varie etnie di cui il Paese è costituito: Karen, Kachin, Mon ed altri; una guerra sanguinosa che va avanti dal 1945 circa. Le Nazioni Unite hanno rivolto il loro interesse subito a questa parte del globo, piagata da una guerra violenta, che ha toccato aspetti di autentica “pulizia etnica”: in pratica intere popolazioni venivano scacciate dalle loro terre, per poter poi essere utilizzate da altri gruppi etnici oppure per scopi politici o economici. Una situazione grave, ampiamente documentata da fascicoli di testimonianze con tanto di nomi e dettagli accurati, che ho personalmente sfogliato: materiale sufficiente per la corte penale internazionale capace di giudicare azioni criminose contro l’umanità. Una lunga storia, allora, fatta di sangue, sofferenze, soprusi, stupri e maltrattamenti verso tutti, soprattutto donne e bambini.

L’apertura di campi sul territorio è iniziata dal 1984, con interesse e impegno da parte della Casa Reale thai a partire dal re e la regina, che hanno sempre manifestato un’attenzione particolare verso queste popolazioni che cercavano rifugio in Thailandia e che dovevano trovare un luogo e mezzi di sussistenza giornaliera. Porzioni di territorio demaniale, sotto il controllo dell’esercito, furono messe a disposizione ed ecco sorgere i campi, che ancora oggi sono operativi.

Ufficialmente un totale di 130 mila persone sono registrate in questi 9 campi: le presenze vanno da un minimo di tremila del campo Ban Tong Yang, a Sangkhlaburi, provincia di Kanchanaburi, fino ad un massimo di circa 31 mila nel più grande dei campi, il famoso campo di Mae La. Sono stime ufficiali a cui bisogna aggiungere, a detta di alcuni esperti, fino ad un 15 per cento circa: in pratica, non tutti coloro che si trovano nel campo sono registrati! Poi ci sono coloro che non fanno parte di queste stime perché non sono mai entrati in un centro ufficiale di accoglienza ed abitano fuori da ogni struttura: praticamente “sotto i ponti” e sono davvero tanti. Mae Sot, per esempio, la cittadina thai che segna il confine tra Myanmar e Thailandia, distante circa 60 km dal campo di Mae La, è letteralmente invasa da persone che arrivano dal Myanmar in cerca di un futuro migliore. Una cittadina, questa, che vive con i profughi e dei profughi: persone disposte a qualsiasi lavoro pur di mangiare; insomma, come si può immaginare, tutta questa mano d’opera a costo zero a qualcuno può far molto comodo.

Dopo la fine ufficiale delle ostilità e la firma di un accordo con le maggiori fazioni fino ad allora in guerra, a novembre 2013 si è arrivati ad una svolta, almeno ufficiale: non più guerra, ritorno alla pace e s’inizia così un nuovo capitolo per il Paese! Il governo del Myanmar, in realtà, ha tutto l’interesse a risolvere la faccenda al più presto: dopo il cambiamento di direzione verso un governo semicivile, tutti i riconoscimenti internazionali ad Aung Sang Su Kyi, le numerose visite di capi di Stato, contratti d’investimento: non c’è alcuna intenzione né tanto meno interesse ad avere campi profughi che sono solo una pessima carta da visita per la comunità internazionale. «Con la cessazione delle operazioni militari e delle ostilità con le etnie, che senso ha avere ancora i campi profughi?», si proclama in ambienti diplomatici. «Tanto più che la situazione economica del Myanmar richiede e richiederà sempre di più forza lavoro a basso costo! Ora c’è lavoro per tutti!». Questa la versione ufficiale!

Perciò, via i campi profughi e tutti a casa: ufficialmente, almeno. Il rimpatrio sarà graduale, sotto l’occhio dei rappresentanti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni per i diritti umani locali, come prima cosa. Poi, molti se non moltissimi di questi profughi, una volta tornati in patria, troveranno il modo (sicuramente anche con pericolo) per rientrare in Thailandia al più presto, in cerca di fortuna e di una paga migliore di quella che troveranno (se mai la troveranno) in Myanmar. La Thailandia, dal canto suo, ha estremo bisogno di forza lavoro a basso costo per le sue industrie, per i suoi ristoranti, per i lavori più umili, ma importati, in tutto il Paese. Si dice che nella sola Bangkok ci siano un milione di persone dal Myanmar che lavorano per lo più in nero. Se per assurdo tutta questa gente partisse dalla capitale thailandese, questa si fermerebbe di colpo, con un danno incalcolabile all’economia. Questa, in breve, la situazione: ufficialmente non ci saranno più profughi, in concreto ritorneranno tanti, se non tutti, in cerca di lavoro e di un futuro migliore. Il paradosso è che tutti lo sanno, chi dovrà cacciarli e poi riaccoglierli e controllarli.

Coloro che lavorano con i poveri, con i profughi, gli emarginati, sanno che questi ci sono e ci saranno ancora per lungo tempo, con sistemi economici indirizzati al guadagno e al consumo. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, dei proclami e delle notizie che fanno “la facciata” di un Paese, c’è chi soffre, chi è sfruttato e maltrattato, ma anche chi guadagna sulla loro pelle! Mae Sot, per esperienza personale, è l’emblema di questa situazione.

E non solo coloro che arrivano dal Myanmar sono in cerca di un futuro migliore in Thailandia: ci sono anche i cambogiani, che scappano da questa piccola nazione, la Cambogia appunto, che vide il sorgere di uno dei più spietati regimi, quello di Pol Pot e dei Khmer rouge, che dal 1975 al 1979 decimò la popolazione della Cambogia di circa tre milioni di persone su di un totale di otto milioni. Ancora oggi si soffre in questa piccola nazione martoriata da una endemica povertà, ingiustizia sociale ed un violento regime che favorisce i pochi ricchi e opprime la stragrande popolazione con l’uso delle armi.

Chiusura dei campi o non chiusura? Poco cambia per chi vuole aiutare ed alleviare le sofferenze dei più poveri. Il lavoro sulla via della solidarietà è tanto, ma anche grande è l’impegno di tante organizzazioni internazionali che operano in questa parte del mondo. Un mondo, che con i suoi 52 milioni di profughi (stime ufficiali) continua a “sanguinare” e chiedere aiuto ed attenzione per tante persone oppresse. Finita l’euforia del Mondiale di calcio, speriamo che altrettanta attenzione sia dedicata a chi soffre: e con l’attenzione, anche risorse economiche almeno sufficienti. È possibile: basta volerlo e possiamo anche chiederlo ai nostri governanti e a noi stessi.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons