Notizie false e notizie vere
Mai come oggi i mass media della nuova generazione digitale ci fanno sentire parte di un insieme mondializzato. Leggiamo degli attacchi al parlamento in Paraguay, dei lanci di missili dalla Corea del Nord, della carneficina che avviene in una remota regione del Congo e ci sembra che ciò accada nella stanza accanto. Le notizie sono locali ma la loro “logica” supera le frontiere. Ciò è indubbiamente positivo, ma c’è un ma: la vecchia tradizione giornalistica di verificare le notizie – ai tempi della gloriosa “scuola anglosassone”, quella de The Times per intenderci, se tre fonti diverse e indipendenti non davano la stessa versione dei fatti la notizia non veniva nemmeno pubblicata! – ormai è sommersa dalla precipitosa corsa ad arrivare per primi, anche se non c’è stato il tempo di verificare la news. Basta mettere un “si dice che…” “sembrerebbe che…” o “fonti ben informate dicono che…” per sentirsi la coscienza a posto. Così, soprattutto sui social network, le notizie circolano con una grave leggerezza, ed è sempre più complicato capire se una notizia corrisponda realmente a quanto è accaduto. Oppure, è questa la maggior parte dei casi, se la notizia dia semplicemente una lettura parziale degli eventi. Un enorme problema per l’informazione.
La realtà va interpretata
Nella mente del giornalista la realtà si para dinanzi e va interpretata. Il mestiere dello scrittore la rende più appassionante, più credibile, talvolta arrivando a inventare dettagli per offrirla più comprensibile, a inserire citazioni ad effetto, a mutare la cronologia. Queste operazioni, a cui non erano estranei giornalisti del calibro di Kapus´cin´ki, Terzani, Fallaci, Fisk o Aleksievic, sono meritorie, finché rimangono nell’ambito dell’onestà intellettuale, senza stravolgere o mistificare la cronaca nella quale il fatto si era sviluppato. Al contrario, con la loro arte ne hanno accentuato l’efficacia. D’altra parte non siamo ancora nell’ambito delle notizie false quando il giornali sta agisce con una chiave di lettura precisa: a Città Nuova, ad esempio, i nostri lettori sanno che usiamo una modalità interpretativa (un’ermeneutica) che ci fa leggere la realtà e i “segni dei tempi” secondo la chiave della fraternità universale. Privilegiamo ad esempio le notizie costruttive, o diamo una lettura delle cattive notizie che sia comunque attenta al bene comune. Altra cosa è invece raccontare cose mai avvenute, affermare ideologicamente un’idea o un principio avvalorandoli con fatti mai avvenuti.
Indispensabili media
Il potere politico e quello economico, ma anche quello religioso o culturale, non hanno più la possibilità di esercitare la loro influenza senza media. Che siano soggetti istituzionali o associativi, privati o pubblici, tutti debbono ormai usare mezzi tradizionali o digitali. Naturalmente esiste una dialettica permanente tra le istituzioni (che vogliono che si dicano certe cose e che se ne tacciano altre) e i giornalisti (che dovrebbero dire quel che corrisponde alla realtà). Il caso paraguayano di un vice-presidente che cerca di “acquistare” le radio locali del Paese perché diano le notizie favorevoli al regime, è solo l’ultimo tassello di un mosaico di rapporti pericolosi tra politica e media (vedi l’articolo su CN Extra, disponibile sul sito cittanuova.it per i soli abbonati). Lo scrittore George Orwell segnalava, forse esagerando ma non troppo, che il giornalismo «è rivelare ciò che qualcuno non vuole che si sappia», aggiungendo che «tutto il resto sono pubbliche relazioni». Le istituzioni cercano quindi di ingraziarsi i giornalisti. Ma la cosa funziona finché la coscienza civica non supera un certo livello di guardia. Osserviamo ad esempio il caso della pedofilia che ha scosso la Chiesa cattolica: la difesa vaticana e di varie diocesi, basata sul nascondere fatti di gravità inaudita, è saltata per aria nel momento in cui un’opinione pubblica più sensibile ai diritti e agli abusi s’è accorta che si volevano nascondere dei delitti. Certamente gli scenari che si aprono per le nostre democrazie sono affascinanti se la società civile sarà capace di proporre le sue visioni eticamente intransigenti alle istituzioni.
Fatti alterati
Talvolta, dunque, si alterano i fatti e si pretende che siano veri. Ciò avviene inventando avvenimenti di sana pianta o presentandoli in modo parziale o manipolato. Qui entra in gioco la “notiziabilità”, cioè il momento in cui un fatto diventa notizia. Ciò avviene grazie alle “fonti” che possono essere uffici stampa, agenzie, giornali… Se queste fonti sono oneste e perseguono il bene comune, non ci sono problemi. Ma se tale notiziabilità viene attuata da fonti che hanno come obiettivo quello di far circolare notizie false o manipolate per conto di governi, istituzioni economiche, culturali o religiose con la chiara finalità di influenzare l’opinione pubblica, ecco che entriamo in un campo minato. Quanto è avvenuto nel 2010 in Thailandia è un caso da manuale: il governo locale aveva inventato delle notizie, quindi totalmente false, una dopo l’altra, per riuscire a sconfiggere le “camicie rosse” che stazionavano nelle piazze di Bangkok per protestare contro la corruzione del governo (anche la cronaca di George Ritinsky su questo caso la potete leggere su CN Extra). Quest’alterazione della realtà da parte delle istituzioni può avvenire a livello locale, come abbiamo visto, ma anche a livelli ben più globali, come hanno evidenziato le valanghe di mail diffuse da Assange o Snowden. Ad esempio, chi ha seguito le vicende relative al programma nucleare dell’Iran, una questione che ha mantenuto il mondo col fiato sospeso, sa bene che più volte, tra il 2010 ed il 2014, vari direttori della Cia e di altri organismi di intelligence hanno garantito al mondo intero che l’Iran era a un passo dall’ottenere la sua bomba atomica, addirittura si parlava di pochi mesi. Con l’accordo stretto tra il “Gruppo dei sei” e il governo iraniano, e soprattutto grazie alle ispezioni della Aiea dell’Onu, si è potuto stabilire con chiarezza che il programma iraniano non aveva nessuna chance di arrivare in tempi brevi a un armamento atomico.
La menzogna della guerra
La guerra è in effetti il maggior teatro di diffusione di notizie false. Anzi, la manipolazione della realtà è considerata una delle armi strategiche più importanti nelle mani delle parti in campo. La guerra di Siria vive di tragiche fake news: quante manipolazioni nel dipingere Aleppo sotto le bombe, nell’inventare fosse comuni, nello sbandierare alla vigilia di grandi summit internazionali il bombardamento chimico di turno, nell’usare persino Hollywood per propagare una data visione delle cose, quella di una parte sola! Su CN Extra potrete leggere il racconto del nostro corrispondete dal Libano, Bruno Cantamessa, che racconta del premio Oscar conferito a un documentario sui cosiddetti “caschi bianchi”, dipinti come eroi ma in realtà legati a fazioni terroristiche. Non è un caso che tanti media abbiano origini militari: dal telegrafo elettrico usato nella Guerra di Crimea alle radio pubbliche impiegate nella Seconda guerra mondiale, alla stessa rete d’informazione che allora si chiamava Arpanet e che poi è diventata Internet, iniziata come collegamento rapido per l’esercito Usa dal presidente Eisenhower. Ancora, durante la guerra dell’Iraq del 2003, quella di George W. Bush, si cominciò a parlare di giornalisti embedded, cioè di reporter al seguito dell’esercito di una parte o dell’altra: ricordate le sahariane sempre nuove di Monica Maggioni sui blindati statunitensi nel deserto di Bassora e le raffinate pashmine avvolte al collo di Lilli Gruber che parlava dalla terrazza dell’hotel Palestine a Baghdad ancora in mano a Saddam? Ebbene, che “tasso di verità” si poteva dare alle parole di giornalisti al seguito di un esercito preciso?
La post-verità
Negli ultimi anni l’accelerazione è stata evidente. Certamente Donald Trump non è stato l’inventore delle notizie false, delle fake news, ma con lui il fenomeno ha avuto un’accelerazione impensata. È paradossale (non stupido) il suo comportamento: se da una parte accusa i grandi network di architettare notizie false ai suoi danni (è arrivato a impedire l’accesso alla Casa Bianca ai reporter della Bbc e della Cnn!), dall’altra non esita lui stesso a “inventare” notizie con la semplice finalità di colpire l’opinione pubblica in quel dato momento. Tanto dopo qualche ora, al massimo qualche giorno, nessuno ne parlerà più, ma l’effetto sulla mente della gente che ascolta o che vede rimarrà. Ne parla la nostra Maddalena Maltese, corrispondente dagli Usa. È il fenomeno che è stato pomposamente chiamato della “post-verità”, che risponderebbe a un solo principio: una cosa è vera perché lo dico io e perché ci credono coloro che hanno fiducia in me e mi votano. Il dittatore nord-coreano, giusto per fare un altro esempio, va nella stessa direzione.
Non c’è nulla da fare?
No: innanzitutto si possono seguire alcuni consigli pratici, che riportiamo in un’infografica elaborata assieme ai nostri amici di Cidade Nova Brasile, per “smascherare” chi racconta menzogne. E poi c’è da favorire e premiare i mass media e i giornalisti che hanno una confermata onestà intellettuale, criticando e facendo sapere il proprio disappunto a quei giornali e a quei reporter che spargono falsità, gossip e idiozie, come s’è fatto nella Rete dopo che era circolata la falsa notizia che la Svezia aveva oscurato le luminarie natalizie per non urtare la sensibilità dei musulmani (vedi in CN Extra, il corrispondente dalla Spagna, Javier Rubio). O ancora, si possono avviare anche online movimenti di protesta contro abitudini menzognere che si installano nella mente della gente ad opera di troppi media: nel supplemento online, ad esempio, il nostro corrispondente dal Camerun, Armand Djoualeu, stigmatizza l’idea che l’Africa sia un continente povero, e non impoverito e saccheggiato. Qualcosa si può fare, insomma. La globalizzazione ha fatto crescere in modo esponenziale le opportunità di comunicazione attraverso la Rete, in modo tale che oggi non esiste solo il controllo dei “grandi fratelli” ma anche quello della società civile, un soggetto sociale che progressivamente si è immesso nei dibattiti e nei processi politici in modo da esserne attore e spesso protagonista. Anche nella comunicazione è chiamata a sollecitare quella dimensione etica che spesso la globalizzazione non prende in considerazione o rifiuta.
Non è una menzogna, è un fatto alternativo MADDALENA MALTESE corrispondente dagli Usa
Tutto è iniziato da un fatto: la folla presente all’inaugurazione della presidenza Trump. Era inferiore a quella per Obama? Falso per il nuovo portavoce della Casa Bianca, vero per i giornalisti che hanno mostrato le foto aeree del Mall di Washington. «Un fatto alternativo», per Kellyanne Conway, consigliere del presidente, che spostando la discrezionalità dalle opinioni ai fatti ha inaugurato un nuovo modello di informazione, quello della cosiddetta post verità. L’opinione pubblica si forma cioè non più con fatti oggettivamente riscontrati, ma attraverso convinzioni personali ed emozioni. Le verità parziali, i misteri irrisolti sono capitoli che appartengono alla storia di tanti Paesi; la novità dell’era Trump è che «alternativi» sono diventati i dossier sul cambiamento climatico, le indagini dell’Fbi sulle interferenze russe nella campagna elettorale, l’indice crescente di criminalità in Svezia attribuito ai migranti (dichiarazione falsa che ha provocato un incidente diplomatico). Il rischio di manipolazioni ha spinto gli scienziati dell’Epa, la soppressa agenzia dell’ambiente, a copiare e archiviare dati e statistiche in computer «alternativi», mentre si temono alterazioni sui numeri della sanità (che non hanno convinto gli stessi repubblicani!), del lavoro e della scuola. Il The New York Times, seguito a ruota da giornali e tv incriminati come falsificatori dalla nuova presidenza, ha inaugurato una rubrica di Check news, cioè una puntuale verifica di quanto dichiarato da Trump e dai suoi collaboratori. Google intanto ha chiuso 200 siti e ne tiene sotto controllo altri 350 perché inaffidabili, mentre Facebook sta studiando un algoritmo che moderi la diffusione di notizie inventate. Mighty writers, un’associazione no-profit ha promosso dei corsi nelle scuole per riconoscere le bufale e non diventarne propagatori. Nel 1787 Thomas Jefferson, terzo presidente Usa scriveva: «Preferirei vivere in un Paese che ha dei giornali e nessun governo piuttosto che in un Paese che ha un governo e nessun giornale». Oggi il suo successore scriverebbe: «Preferirei un governo e un Paese raccontati solo dai miei giornali».