Note sull’amore impossibile sull’amore impossibile
La frase del Preludio che sale e si avvolge è lancinante. Ma è questo l’amore-passione che travolge Tristano e Isotta per tre atti, esplodendo in un’estasi che è beatificante e annichilente insieme. Amore e morte infatti sono intimamente legati, secondo Wagner, che ne indaga le pieghe riposte, il desiderio inconsapevole e quello espresso, la fusione fisica e spirituale sempre cercata, sempre perseguitata – dagli eventi, dalle persone – e appagata-non-appagata in quel Nulla catartico in cui si calano gli amanti alla fine, fra il sogno e il delirio. Letteratura e filosofia si fondono nel testo dell’autore, ripreso dalla tradizione medievale dell’amore cortese, in una visione in cui il rapporto materia- spirito si condensa in un annegamento cosmico; ma quello che rende universale la poesia wagneriana è la capacità della musica di dar voce alla forza insopprimibile dell’amore con una potenza ed una profondità uniche. Per quanto in Wagner si aneli ad un qualcosa di ancora più grande, mai raggiunto, che dia senso completo alla vitalità stessa dell’amore. L’edizione ceciliana, con Chung sul podio, realizza un Tristano meno decadente e sontuoso di quello di Thielemann del 1993, ma più drammatico, chiaroscurato, veloce e pieno di vita, ricordando anche certi accenti del Ballo in maschera verdiano. Chung ottiene da un’orchestra convinta, grazie al suo gesto molto bello, sonorità ora cupe ora distese, sempre incalzanti, con momenti memorabili come l’assolo del corno inglese (Renato Duca), della prima viola (Raffaele Mallozzi) e certe grida dei violini da brivido. Stupenda per fraseggio, duttilità espressiva l’Isotta di Violeta Urmana, coadiuvata in particolare da Lioba Braun, dai due bassi superlativi Matti Salminem e Alan Titus, concentrati, possenti; meno convincente il pur bravo Stig Andersen, come Tristano. Pubblico attentissimo, entusiasta per il capolavoro. G.Puccini, Tosca. Roma, Teatro dell’Opera. 104 anni di favore del pubblico (un po’ meno della critica) per i tre atti in cui il consueto trio – l’amante idealista (Cavaradossi), la donna fatale e istintiva (Tosca), il rivale sadico e bigotto (Scarpia) – si fronteggia nella Roma papalina, sacra e profana, tra squarci d’ambiente (Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo), naturalistici e grossi effetti teatrali (il secondo atto) di indubbia presa sull’emotività immediata dello spettatore. Puccini abilmente lega il tutto con romanze memorabili – e memorizzabili – raffinati ralenti dell’azione scenica, anche se manieristiche, ed un’orchestrazione intelligentissima, preziosa fino ad una certa retorica. Certo, l’amore-passione non ha il respiro grande di un Wagner, ma riflette il clima piccolo-borghese dell’Italietta novecentesca, una poesia dagli orizzonti limitati e popolari che fa di Tosca un lavoro diseguale, anche se con belle arie, gioia del pubblico e dei cantanti. L’edizione romana, nell’allestimento tradizionale di Ettore Rondelli e con la regia un po’ prevedibile di Giuseppe Giuliano, vedeva sul podio un mobilissimo Steven Mercurio, musicista di valore, ma convinto che Tosca vada esaltata nelle sonorità eclatanti, nei colori di fuoco, più che nelle ricercatezze formali. Esordivano a Roma Galina Gorchakova, Tosca sopraffatta dall’orchestra per quanto attrice espressiva, e Richard Leech, Mario possente ma non raffinato; accettabile lo Scarpia di Silvano Carroli, forse memore della storica edizione Callas-Gobbi. L’orchestra ha dato il massimo – il coro un po’ meno – e l’opera è filata via, fra il trasporto del pubblico alle numerose repliche.