Note a margine di una morte

La riflessione di un medico palliativista di fronte agli ultimi giorni di vita di Michela Murgia
Michela Murgia (Foto Alberto Gandolfo/LaPresse)

Una premessa, innanzitutto: seguivo pochissimo le vicende culturali e i dibattiti giornalistici che hanno sempre accompagnato le parole di Michela Murgia. Non sono quindi la persona adatta a dire alcunché su di lei come intellettuale e figura pubblica.

Ma occupandomi di cure palliative e fine della vita devo dire che la sua ultima vicenda umana mi ha molto colpito. Non solo per la forza delle sue parole, per nulla ideologiche e per nulla teatrali, in un cui ha pubblicamente condiviso la sua condizione.

Malata di tumore renale al IV stadio, quindi metastatico, nel suo caso anche a livello cerebrale. Ancora in terapia, con i più moderni protocolli (accettati e vissuti con fiducia nella medicina e al tempo stesso con consapevolezza dei limiti).

Senza ricerca di colpevoli, senza drammatizzazioni. La narrazione dell’ultimo tempo («sto morendo») e l’invito (questo sì autenticamente “politico”) a non aspettare “quel” tempo per agire e vivere la stagione dell’impegno. Innegabile che fino all’ultimo sia stata testimonianza autentica e non ostentata di tutto questo. Al punto, che – per quanto preannunciata da lei stessa – la morte è alla fine giunta di sorpresa per molti, poco dopo gli ultimi interventi pubblici.

Ogni storia è unica, ma certamente la testimonianza della Murgia si colloca nel solco delle grandi narrazioni (Gigi Ghirotti, Anna Lisa Russo, per fare due esempi di tempi diversissimi) che hanno aperto un varco sul grande “tabù” della malattia oncologica, della terminalità, della morte.

Ma è proprio nel filo di questa riflessione che ne sorgono altre più tristemente legate alla nostra tendenza a rimuovere e a non voler sentire il grido dei malati che vivono quotidianamente situazioni come quella a cui la Murgia ha saputo dare voce. Sarebbe bello, per esempio, se alcuni luminari delle università e del grande schermo oggi semplicemente chiedessero scusa.

Scusa a Michela Murgia e ai tanti malati come lei per quella levata di scudi che subito dopo il suo annuncio si è alzata nelle pagine dei giornali e dei social. Il tenore era simile: oggi di tumore si può vivere molto a lungo, anche al IV stadio, grazie agli incredibili progressi delle terapie.

Verissimo: abbiamo vissuto e viviamo quotidianamente gli straordinari sviluppi delle terapie a bersaglio genetico e dell’immunoterapia. Sappiamo che malati che fino a qualche anno fa alla diagnosi avrebbero avuto poche settimane di vita oggi possono vivere per anni (se presentano “quel” recettore, “quella” mutazione, “quel” profilo genetico). Di alcuni si comincia anche a parlare di “guarigione” (parola finora impronunciabile per malati metastatici, al massimo si poteva parlare di lunghe cronicizzazioni).

È giusto dirlo, è giusto continuare a investire nella ricerca, è giusto dare speranza nel momento della diagnosi. Gli sviluppi delle terapie richiedono anche un salto di qualità nella cultura dei palliativisti che sarebbero “colpevoli” se non fossero aperti alle strade possibili per far entrare in qualche nuovo protocollo di cura scientificamente fondato i loro pazienti.

Michela Murgia (Foto Cosima Scavolini/Lapresse)
Michela Murgia (Foto Cosima Scavolini/Lapresse)

Ma resta il fatto che tutto questo lei lo sapeva bene, come probabilmente sapeva di essere in un’altra fase. Perché di tumore, così come di tante altre malattie evolutive, si continua a morire. Ancora oggi – e purtroppo spesso è così – non sempre c’è “ancora una terapia”. L’umanissima testimonianza di Michela Murgia meritava certamente maggior rispetto, forse – ancor meglio – silenziosa vicinanza. Non così diverso da quello che cercano i tanti nostri malati, più di inutili e illusorie parole di finta speranza.

Quotidianamente in hospice ricoveriamo malati con diagnosi recentissime e subito “terminali”, o malati e famiglie traumaticamente segnate dal “miracolo non avvenuto” dell’immunoterapia che sembrava la soluzione risolutiva.

C’è già un’ampia riflessione nella letteratura internazionale (ma non è naturalmente questo il sito in cui mettere lunghe note bibliografiche): sempre di più emerge come di fronte a successi terapeutici che hanno del rivoluzionario siano necessarie modalità nuove di comunicazione, anche mediatica.

Perché non sempre il successo avviene o è pieno. E servono strategie innovative di collaborazione fra specialisti diversi, di integrazione precoce fra oncologi e palliativisti «sperando nel meglio e preparandosi al peggio», cercando tutti insieme il miglior accompagnamento al malato e alla sua famiglia, anche nella condivisione delle scelte più difficili.

Con il coraggio di parlarne – come ha fatto Michela Murgia in prima persona – e di questo non si può che renderle atto.

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