Nostro Tiresia
«Ho trascorso questa mia vita ad inventare storie e personaggi, sono stato registra teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a 90 anni, ho sentito l’urgenza di capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla. Solo su queste pietre eterne. Ora devo andare».
L’11 giugno del 2018 sulle pietre eterne del teatro greco di Siracusa Camilleri faceva risuonare la sua voce, lasciandoci queste parole. Il raccontastorie sentiva che doveva andare, e lo diceva raccontando ancora una volta una storia. Era cieco, come le era stato l’antico indovino greco Tiresia, di cui, tra finzione e realtà, celebrava la vita fantastica nella sua piece teatrale. Cieco, come lo erano stati Omero, Milton, Borges. «Da quando non vedo più, io vedo meglio, vedo con più chiarezza», confessava. Aveva colto. È necessario essere ciechi per vedere meglio. Lo sa ogni raccontastorie, ogni poeta. Sa che è necessario essere ciechi per non distrarsi e guardarsi dentro, nel profondo dell’anima o cosa essa sia, dove risuona la risacca. Dove le onde delle faccende del mondo, esaurite le esibizioni di fascino o di paura, sono risucchiate al mare e depositano sulla spiaggia il loro contenuto di verità.
Il raccontastorie lo coglie questo deposito e su di esso tesse le sue invenzioni. Costruendo parole che sono la cosa più vicino che ci sia alla realtà. Per questo amiamo Camilleri, perché ci ha raccontato delle storie. Storie che ci hanno appassionato, cosparse qua e là da granuli della sua gracchiante saggezza. È morto Camilleri. Ma dovunque tu ora sei, nostro Tiresia, ti chiediamo di farci ancora un po’ di luce. Ne abbiamo bisogno, e tu lo puoi fare. Perché non muore mai chi sa raccontare storie.