Nostra sposa la vita
Conversando di poesia con Pasquale Maffeo. L’ultima sua raccolta poetica.
Un’infanzia trascorsa a Capaccio (Paestum), la scoperta folgorante dei Vangeli, poi gli studi agrari a Eboli, il latino, i classici della filosofia, la passione per l’arte. A Napoli altri studi: lingue e letterature francese e inglese. Quindi il matrimonio, i figli, anni di insegnamento. Ma altra era la vocazione di Pasquale Maffeo, che incontro nella sua luminosa casa di Tremensuoli, sul golfo di Gaeta. Era nato scrittore (di lui abbiamo biografie, saggi critici e testi teatrali, ed è appena uscito il suo quinto romanzo Il nano di Satana), ma soprattutto era nato poeta.
Nostra sposa la vita (ed. Caramanica) raccoglie il meglio della sua opera poetica. «Alcuni testi – spiega – sono riveduti, altri riscritti per omologare la scrittura su un piano stilistico che rispecchi – spero – una maturità espressiva acquisita attraverso l’esercizio della lettura. Sono infatti convinto che padroneggiare il mezzo espressivo sia per lo scrittore un dovere etico. È il motivo per cui la scrittura mi diventa anche fatica, dopo la stesura di getto».
Lei si è definito un «tessitore di parole». A volte però questo tessuto può risultare un po’ intricato per chi legge.
«Il poeta deve il più possibile sforzarsi di essere limpido. Tuttavia la poesia – come altre arti – può richiedere una sensibilità capace di penetrare la sua verità prima ancora di aver capito il testo. Le porto l’esempio di Cristina Campo, poetessa di ardua comprensione: anche se a prima lettura ho difficoltà a coglierne il messaggio, posso però rimanere colpito dal fuoco, dall’energia del suo verso: e ci ritorno. Il lettore di poesia non può mai essere uno sprovveduto, i testi poetici bisogna inseguirli con amorosa pazienza. La poesia di immediata fruizione muore col proprio tempo. Essa invece dovrebbe esprimere realtà che hanno un valore per gli uomini del presente e – si spera – anche del futuro».
«Straniero alla finestra guardo il mondo/ che irride questo esilio, mia vittoria». Questi suoi due versi mi fanno pensare che la poesia è anche un fatto di sguardi: saper guardare fuori e dentro di sé…
«Il poeta in effetti sente il mondo in tutta la sua realtà di pene, gioie, pulsioni, esperienze. Lo guarda, ma mettendosi da parte per poterlo cogliere meglio, con l’occhio di uno straniero dentro casa. Io sono con voi, ma non sono d’accordo con voi su certe cose. E questo perché a mio modo le vivo in profondità, lontano dal bagaglio di banalità che soffocano oggi gran parte dell’esistenza».
Allora il poeta sarebbe uno che si chiude nella sua torre d’avorio?
«Non voglio dire questo e capisco che qui si rischia un’eccessiva concessione all’autonomia della creatività, idea ereditata dal romanticismo, quando si riconoscevano al poeta e all’artista in genere qualità straordinarie di percezione, di profezia, di autoconsacrazione, per cui egli elaborava un suo mondo in cui vivere. Io credo invece che il musicista, il pittore, lo scrittore, il poeta sia uomo come altri e debba avere l’umiltà di riconoscerlo. Nel suo toccare il fango quotidianamente, e nella sua capacità di uscirne pulito – questo è il punto – sta la dote di cui il Padreterno ha fornito chi produce l’opera d’arte».
Quale era un tempo e quale può essere oggi il contributo di un poeta?
«Domanda abissale! Se nell’Ottocento quello del poeta era uno status sociale (desiderato nei salotti, additato in pubblico), oggi non è più così per la tendenza a laicizzare tutto ciò che è squisitamente spirituale, a “reificare” la vita. Ma il poeta è necessario oggi più che mai. Perché esplora e medita il divenire del proprio tempo nelle sue certezze e nei suoi dubbi, e lo porge a chi dovrebbe assumerli, coniugarli in termini di civiltà. Perché è la voce pura e gratuita, che non rinuncia alla sua testimonianza di verità; la voce che accusa, ammonisce, redime. Il poeta può tornare ad avere un suo ruolo civile in una società allo sbando nella misura in cui fa vivere la sua visione con tutte le risorse di cui dispone (fantastiche, linguistiche, ispirative), fermando nella pagina momenti di rivelazione dell’essere e della realtà che lo circonda».
Maffeo e il dolore. Prendo spunto da questo verso: «L’ora del pianto ci rifece umani».
«È il vero problema di sempre. Come si concilia l’irrompere del male, del dolore con la certezza della carità di Dio, della nostra radice divina? La risposta che ho ricavato dall’esperienza è che il dolore è una parte necessaria dell’esistenza. Se non ci fosse, non sapremmo cos’è la gioia. Se si sanno attraversare i cunicoli bui, che non sono ciechi – questo è il punto –, si esce a guardare un orizzonte sereno, si acquista la coscienza di una verità che ci promuove, ci rende partecipi, ci fa sentire che la vita è dono».
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