Nostra sposa la vita

Conversando di poesia con Pasquale Maffeo. L’ultima sua raccolta poetica
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Una infanzia trascorsa a Capaccio (Paestum) presso la casa patriarcale dei nonni, la scoperta folgorante dei Vangeli, poi gli studi agrari a Eboli, il latino, i classici della filosofia, la passione per l’arte. E più tardi altri studi a Napoli, all’Istituto Orientale (laurea in lingue e letterature francese e inglese). Quindi il matrimonio, i figli, i lunghi anni di insegnamento nei licei con periodici inserimenti nell’Università di Roma. Ma altra era la vocazione di Pasquale Maffeo, che incontro nella sua luminosa casa di Tremensuoli, che guarda sul golfo di Gaeta. Era nato scrittore, poeta soprattutto.

 

Questa “chiamata”, come lei la definisce, in che modo s’è fatta sentire?

«Ancora studente all’Orientale, mettevo naso nelle redazioni dei quotidiani napoletani e collaboravo ad una rivista francescana. Vennero poi altre collaborazioni (L’Avvenire d’Italia, L’Osservatore Romano, La Gazzetta di Parma), soprattutto nella terza pagina. Dopo un esordio come poeta, tentai la narrativa con un volume di racconti, Dentro il meriggio. La buona accoglienza di questo primo lavoro mi persuase a scrivere un romanzo, L’angelo bizantino, che fu candidato allo Strega (vinto da Primo Levi con La chiave a stella). Seguì Prete Salvatico, un romanzo scritto di getto che ebbe una lusinghiera affermazione».

 

Di cosa racconta?

«È la storia di un sacerdote che dubita della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata. In punto di morte sente il bisogno di confessarsi, ma in mancanza di altri preti affida la sua storia e i suoi dubbi all’innocenza di un bambino, che mentre gli dà l’assoluzione si trasforma e diventa Cristo. È un libro di fede, incentrato sulla verità di questa presenza divina che accompagna i passi di noi uomini, tanto spesso sbadati, ciechi, incapaci di superare la nostra passionalità».

 

E poi?

«Coi successivi Il nipote di Pulcinella e Il Mercuriale ho all’attivo quattro romanzi, mentre un quinto è in preparazione. Testimoniano il mio credo cristiano, il mio non sentirmi orfano d’un Padre neppure in un mondo come l’attuale. Ho scritto anche delle biografie (Salvator Rosa, Giorgio La Pira e Federigo Tozzi), dei saggi critici; e tradotto dall’inglese classici del ‘700 e ‘800, tra cui William Collins, ritenuto il maggior lirico del XVIII sec., che in Italia non era mai stato tradotto integralmente. Inoltre ho scritto una decina di testi per il teatro. Continua la mia collaborazione giornalistica ad Avvenire e poi – visto che è ormai tempo di fare i bagagli – mi sto occupando di mettere ordine fra le mie carte. Carte, aggiungo, tutte acquisite (opere pubblicate, manoscritti, quaderni, bozze, materiale critico e promozionale) dal Centro di ricerca “Letteratura e Cultura dell’Italia Unita” presso la cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea della Cattolica di Milano».

 

Mi parli della sua ultima raccolta poetica…

«Nostra sposa la vita raccoglie tutto quello che della mia opera poetica (sono sette raccolte) ritengo si possa salvare. Alcuni testi sono in parte riveduti, altri in gran parte riscritti. E questo per omologare la scrittura su un piano stilistico che rispecchi – spero – una maturità espressiva acquisita attraverso l’esercizio quasi quotidiano della lettura. Sono infatti convinto che padroneggiare il mezzo espressivo sia per lo scrittore un dovere etico. È il motivo per cui la scrittura mi diventa anche, in un secondo momento, fatica, dopo la stesura di getto».

 

Come funziona la sua macchina inventiva?

«Io non scrivo per diletto, per riempire pagine: debbo sentire la necessità di comunicare qualche scheggia di verità intuita attraverso la mia quotidianità. Faccio un esempio: l’episodio di una foglia staccatasi da un albero che viene a posarsi su una scarpa mentre riposo può colpirmi fantasticamente e farmi chiedere: cosa può significare la caduta di quella foglia? Noi uomini siamo come foglie? (esiste tutta una tradizione letteraria su tale metafora). Accesasi una luce che porta in sé anche immagini e forme (si tratti di poesia, di teatro, di racconto o romanzo), io ne sono posseduto al punto che devo fissare sulla carta il primo getto immediato e felice. Ci ritorno su dopo almeno cinque-sei mesi, quando ho smaltito il tormento intimo (chi ci passa, queste cose le sa) con occhio distaccato, capace di esercitare l’autocensura. Solo allora riprendo in mano il manoscritto (io scrivo ancora a mano) e comincio la messa a punto della scrittura che è la parte più laboriosa. Non sono contento finché la pagina non raggiunge quella limpidezza e, direi, quella cadenza e ricchezza anche di sintassi interna, di suoni, di colori, quell’unità plastica capace di catturare il lettore. Guai allo scrittore che annoia, è uno scrittore mancato».

 

Come poeta lei si è definito un «tessitore di parole». A volte però questo tessuto può risultare un po’ intricato per chi legge.

«Riconosco che non tutti i miei testi sono immediatamente accessibili: esiste in alcuni una allusività che può, ad una prima scorsa, mettere fuori strada il lettore. Però è anche vero – e qui sta il senso della mia risposta – che la poesia è un’arte di parole intessute dove almeno tre elementi convergono a costituire il testo nella sostanza e nella forma. Il primo è la verità di ciò che bisogna dire (sarebbe l’istanza che chiede di venire tradotta in parole e immagini). Il secondo momento: la sintassi della costruzione verbale dev’essere contenuta in una organicità che non necessariamente deve corrispondere con la misura della strofa. A tutto questo si aggiunge la sintassi del melos. La poesia in origine era accompagnata dalla musica, era cantata. E questo perché le assonanze, le consonanze, il gioco delle rime danno una corposità melodica, che costituisce il fascino direi della oralità, perché la poesia deve anche essere possibilmente trasmessa, letta (una volta la si imparava addirittura a memoria). Hopkins dice che bisognerebbe cantarla o comunque recitarla ad alta voce. Tutto questo processo può non risultare immediatamente accessibile e semplice».

 

Non si rischia così di non trasmettere il messaggio o di farlo fraintendere?

«Ovviamente il poeta deve il più possibile sforzarsi di essere limpido. Tuttavia la poesia – come le altre arti – può richiedere una sensibilità capace di penetrare la sua verità prima ancora di aver capito il testo. Su questo quasi tutti gli autori e i critici del Novecento sono d’accordo. Faccio un esempio: leggendo una pagina di Cristina Campo, poetessa di ardua comprensione, anche se ad una prima lettura ho difficoltà a coglierne il messaggio, posso però rimanere colpito dal fuoco, dall’energia del suo verso: può insomma accadere che il lettore veramente disponibile, aperto, avverta dentro quel testo qualcosa che lo tocca, e ci ritorna.

«Insomma, il punto da chiarire è che il lettore di poesia non può mai essere un lettore sprovveduto, i testi poetici bisogna inseguirli con amorosa pazienza. La poesia di immediata fruizione, quella soprattutto descrittiva, che evoca il paesaggio o presenta una situazione e si esaurisce in quella, muore col proprio tempo. Invece la poesia dovrebbe esprimere cose che hanno un valore per gli uomini del presente e – si spera – lo avranno anche per gli uomini del futuro».

 

«Straniero alla finestra guardo il mondo/che irride questo esilio, mia vittoria». Questi suoi due versi mi fanno pensare che, oltre ad essere un tessuto di parole, la poesia è anche un fatto di sguardi: saper guardare fuori e dentro di sé…Non a caso Omero viene rappresentato come un vecchio cieco. Cieco allo sguardo banale, per essere aperto ad una visione “altra”. È così?

«È proprio così. Partiamo dai versi da lei citati: il poeta in effetti sente il mondo in cui gli tocca vivere in tutta la sua realtà di pene, gioie, pulsioni, esperienze. Lo guarda ma mettendosi da parte proprio per poterlo cogliere meglio, e quindi non con distacco ma con l’occhio di uno straniero dentro casa. Io sono con voi, ma non sono d’accordo con voi su certe cose. E questo perché a mio modo io le vivo in profondità, tenendomi lontano dal bagaglio di banalità che soffocano oggi gran parte dell’esistenza. “Straniero dentro casa” non significa altro».

 

Allora il poeta sarebbe uno che si chiude nella sua torre d’avorio?

«No, non è questo che voglio dire, e capisco che qui si rischia una eccessiva concessione all’autonomia della creatività, idea ereditata dal romanticismo, da un’epoca in cui si riconoscevano al poeta e all’artista in genere qualità straordinarie di percezione, di profezia, di autoconsacrazione, per cui egli elaborava un suo mondo nel quale vivere. Io credo invece che il musicista, il pittore, lo scrittore, il poeta sia uomo come gli altri e debba avere l’umiltà di riconoscerlo. Nel suo toccare il fango quotidianamente, e nella sua capacità di uscirne pulito – questo è il punto –  sta la dote di cui il Padreterno ha fornito colui che produce l’opera d’arte. Questa è la mia posizione, che spero di aver chiarito».

 

Quale era un tempo e quale può essere oggi il contributo di un poeta?

«Domanda abissale! Se nell’Ottocento quello del poeta era uno status sociale (desiderato nei salotti, additato in pubblico), oggi il poeta non esiste più come figura collocabile all’interno di una civiltà che si rispetti, per la tendenza di questo nostro tempo a laicizzare tutto ciò che è squisitamente spirituale, a reificare la vita. Ma il poeta è necessario oggi più che mai. Perché esplora e medita il divenire del proprio tempo nella sua luce e nel suo buio, nelle sue certezze e nei suoi dubbi, e lo porge a chi dovrebbe considerarli, assumerli, coniugarli in termini di civiltà. In altre parole, il poeta intuisce e anticipa il futuro con un furore certe volte profetico. Alcuni autori del primo Novecento avevano annunciato ciò che oggi stiamo vivendo e ciò che sta per accadere. Il poeta è la voce pura e gratuita, che non può rinunciare a dare la sua testimonianza di verità; la voce che accusa, ammonisce, redime. Il poeta può tornare ad avere un suo ruolo civile in una società allo sbando nella misura in cui fa vivere la sua visione con tutte le risorse di cui dispone (fantastiche, linguistiche, ispirative), fermando nella pagina momenti di rivelazione dell’essere e della realtà che lo circonda. Ecco la funzione della poesia! Pertanto è fondamentale che il poeta si riappropri della sua identità oggi svenduta – e lo dico con amarezza. Migliaia e migliaia di persone scrivono a vuoto, riempiono fogli e credono di aver fatto poesia».

 

Come mai le attuali generazioni sembrano sorde a questo annuncio?

«È colpa dei vecchi. Loro hanno ridotto la funzione della poesia e delle arti a sortilegio ludico. Si pensi al Gruppo ’63. Ma se tutto ciò che riguarda l’invenzione artistica viene ridotto a gioco, tutto diventa lecito, cade la responsabilità civile e morale di chi scrive, predica o dipinge. Così perdiamo l’ascolto di chi dovrebbe seriamente raccogliere, per trovare qualche riscontro che lo tocchi in profondità e gli dica qualcosa di sé. Il fatto di mettere tutto sul piano del gioco ha spiazzato i lettori».

 

Maffeo e il dolore. Prendo spunto da questo verso: «L’ora del pianto ci rifece umani».

«È il vero problema di sempre. Come si spiega, come si concilia l’irrompere del male, del dolore con la certezza della carità di Dio, della nostra radice divina? La risposta che ho ricavato dall’esperienza (la guerra, la fame, la morte di persone care, i disastri che si abbattono sull’uomo) è che il dolore è una parte necessaria dell’esistenza. Guai se non ci fosse: noi non sapremmo cos’è la gioia. Se si sanno attraversare i cunicoli bui, che non sono ciechi – questo è il punto –, si esce a guardare un orizzonte sereno, pullulante, eterno. Si acquista la coscienza di una verità che ci promuove, ci rende partecipi, ci fa sentire che la vita è dono».

 

Dunque il dolore serve?

«Se l’uomo non passa attraverso la stretta del dolore, non sperimenta tutta la vita nella profondità dell’essere. Soprattutto nella creazione artistica il dolore conta molto. Le opere più alte sono sempre nate per esplosione interna di dolori non smaltiti o di rabbie del dissenso (la rabbia non è che un’altra forma di sofferenza). Il dolore ha una funzione catartica: aiuta a far nascere la percezione dell’uomo, ci dice quel che siamo, ci matura al bene. Le volte che sfocia nel male incarna una forma inferiore di rivolta, diventa regressione verso istinti animali».

 

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