Nostalgia di Mario Martone
La nostalgia, ovvero il desiderio del ritorno, del viaggio verso un tempo passato ma che rimane impresso nell’animo. È quel sentimento che tutti proviamo, prima o poi. Ed è quello che prova Felice Lasco (Favino), fuggito da una adolescenza irrequieta via da Napoli e ora imprenditore ricco in Egitto, ma che avverte il desiderio profondo di un “ritorno a casa”. Napoli gli sembra sempre la stessa, andando a trovare la vecchia madre sola nel rione Sanità. Felice rivede luoghi e scene dell’adolescenza, l’amicizia con Oreste Spasiano (Tommaso Ragno), volti e luoghi. Parla a fatica l’italiano, poi lentamente si inoltra nella Napoli di oggi, nel prete anticamorra don Luigi – ispirato a padre Antonio Loffredo – che tenta con amore disperato di salvare i giovani con lo sport e la musica. Finché in tanti, in troppi, gli suggeriscono di ripartire. Napoli non è più quella di un tempo o è sempre la stessa? Felice comprende, parlando con il prete, la realtà quotidiana di un quartiere e di un modo di vivere. Morta la madre, vuole stabilirsi a Napoli, far venire la moglie. La nostalgia ha preso possesso di lui, non riesce a sfuggirle, anche se può costargli molto.
Delicato e drammatico film sul sentimento del ritorno, che è pulsione dell’anima, prima di tutto, il racconto di Martone fa del rione – selvaggio, confusionario, violento e passionale, ombroso di giorno e di notte – l’autentico protagonista: silenzioso e rumoroso, misterioso e fascinoso. Sondato da una fotografia chiaroscurata, spesso morbida, caravaggesca in certi primi piani (di Favino e della madre) – memore di pittura napoletana secentesca e non solo -, il film racconta un mondo, una gente – le comparse sono persone del quartiere – un modo di essere e di stare al mondo. Sospeso fra disperazione, delitto e speranza.
L’amico di un tempo è diventato un boss spietato, “’o malommo”, che incontra Felice, si commuove pure, ma poi la violenza ha la meglio su di lui. Oreste non cerca una redenzione, non ha speranza, è prigioniero del passato oscuro, è un uomo chiuso nel buio, disperatamente solo (memorabili le sue passeggiate nei vicoli).
Intenso e vero è il prete don Luigi, immagine di una chiesa dei poveri e degli emarginati, foriera di speranza e di lotta contro il male. E infine Favino, che parla in arabo e poi recupera il napoletano, dalla intensità mimetica folgorante, dalla variazione emotiva che gli si legge in faccia, nei gesti parchi, nella camminata in un quartiere che lo scruta ma che lo seduce perché qui è nato e ha vissuto gli anni della intemperanza fascinosa.
Raro nelle parole e nei gesti, vibrante di sottintesi, il film si equilibra tra commozione profonda – Felice che fa il bagno alla madre anziana (Aurora Quattrocchi) – e dramma, restituendo alla parola “nostalgia” il senso più intimo: l’impossibilità di rinunciare al ritorno, agli affetti, ad essere sé stessi. La voglia di poter sperare. Bellissimo, merita forse più di un premio. Da non perdere.
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