Nosiglia: dare ali alla fraternità

Intervista all'arcivescovo di Torino su crisi e povertà vecchie e nuove. La posizione della Chiesa torinese. La sfida delle persone senza dimora. Povertà, cultura e percorsi di dignità
Nosiglia

La prima delle capitali d’Italia, e sua capitale industriale, Torino, sede nell’autunno prossimo della Settimana Sociale dei cattolici, è lo specchio della crisi: quale la risposta della Chiesa locale?

La crisi ha stratificato le storie di povertà del nostro territorio, rendendole sempre più complesse ed articolate. Non stupisce, quindi, che a domande complesse debbano corrispondere risposte articolate, che richiedono non solo azioni conseguenti ma anche, e soprattutto, percorsi e programmi di ampio respiro. Quindi non basta più solamente pensare a un modo diverso di allocazione delle risorse in base a priorità determinate dalle urgenze, ma va approntato proprio una sorta di piano strategico capace di ripensare il modello dello stato sociale e dell’intervento in tale ambito, sia delle istituzioni pubbliche che di quelle private. Tutti elementi che si possono realizzare solamente con uno sforzo congiunto, condiviso e irrinunciabile, di “lavoro di squadra”. E non solo per fare economia di scala, ma per costruire qualche percorso che sia capace di rigenerare gli stili sui quali si costruisce la società civile. Dal punto di vista ecclesiale direi che la squadra è esigenza di comunione e di fraternità, l’unica vera strada poter giungere a un miglioramento che sia strutturale e non solo ripartivo. Se poi dovessi dire quali forme di povertà mi stanno più a cuore, aggiungerei: la mancanza del lavoro, la solitudine delle e nelle famiglie, il futuro dei giovani. Da questi tre mi sentirei di spronare tutti a partire.

La Chiesa cattolica ha spesso svolto nella storia, attraverso i suoi diversi carismi, un ruolo di avanguardia nelle emergenze sociali per rispondere ai bisogni reali delle persone. Come favorire un maggior dialogo interno alla Chiesa locale al fine di raggiungere tale obiettivo?

Che la Chiesa sia una sentinella è chiaro, rileggendo testi alti di pastorale quali quelli del Concilio Vaticano II. Che sempre sia stata in grado di farlo, lo giudicheranno i posteri.

Nell’oggi, così complesso e dalle tante facce, è però necessario incrementare la capacità di leggere i segni dei tempi attraverso strumenti che colgano in tempo reale l’evolversi della situazione e il cambiamento del grido di aiuto lanciato dai tanti nuovi o vecchi poveri. Serve, ad esempio, uno stile di agorà che metta insieme i tanti soggetti attivi nell’ambito dell’attenzione alla persona, i quali, trovandosi in fraternità, possano fare discernimento e trovare piste di lavoro comuni e condivise.

Serve anche accrescere maggiormente il ruolo degli strumenti di osservazione, anche interni alla nostra Chiesa, portandoli in maggior rapporto tra di loro, in modo da renderli capaci di cogliere i movimenti nell’ambito sociale nel suo complesso: dalla povertà al mondo del lavoro, dalla salute al grande tema dell’immigrazione.

Servono, poi, momenti in cui approfondire e fare programmazione – pastorale soprattutto – per un futuro prossimo aperto al futuro più lontano. Altrimenti rischiamo di rispondere solo alle emergenze tralasciando le prospettive e la possibilità di costruire un progetto di società, di famiglia, di scuola, di welfare, di programmazione delle politiche generali.

La celebrazione, nell’autunno prossimo, della Settimana Sociale dei cattolici proprio nella nostra città certo ci darà qualche stimolo anche in tal senso.

A proposito di welfare, nel rapporto con le istituzioni pubbliche e l’associazionismo laico, qual è o quale dovrebbe essere il ruolo della Chiesa e del volontariato che ad essa fa riferimento per evitare una mera mansione sostitutiva nell’erogazione di servizi fondamentali?

La situazione in cui ci troviamo a vivere, mi pare ci stimoli a compiere un passo avanti decisivo nell’ottica del ripensamento dei metodi e delle prassi di azione nel welfare. Nel corso degli anni è andata crescendo la competenza del pubblico e delle sue Istituzioni nell’ambito dei servizi alla persona e dell’accompagnamento alla fasce deboli. D’altro lato anche il privato sociale ha percorso significativi cammini di approfondimento della propria missione, del suo ruolo prioritario, delle proprie competenze e degli scenari in cui poteva inserirsi. Il criterio, anche grazie ai suggerimenti della Dottrina Sociale della Chiesa, è stato quello di appoggiarsi sempre più al valore della sussidiarietà, che vede il terzo settore non come pietosa infermiera della storia ma come soggetto attivo nelle sue proprie peculiarità.

La crisi ha portato alla tentazione, da talune istituzioni talora accolta, di lasciare sulle spalle del volontariato e della cooperazione sociale sempre maggiori pesi. Ultimamente la grave carenza di risorse pubbliche induce senza dubbio a questa forma di pensiero. Ma, se negli anni abbiamo pensato in modo duale a istituzioni e privato, è forse giunto il momento di eliminare la contrapposizione per arrivare a un’armonizzazione che sappia mettere insieme risorse e prospettive nell’ottica della responsabilità comune e condivisa. Inoltre, è proprio la responsabilità che può dare ali alla speranza di cui la nostra gente, e non solo i più poveri, ha davvero bisogno oggi.

Tutto questo significa svendere le identità e le specificità del volontariato? Certamente no. Significa solo compiere un passo in avanti nella logica della realizzazione della fraternità, così come ce l’ha magistralmente descritta Benedetto XVI nella Caritas in Veritate. Così come tenta di fare ogni giorno nella sua molteplice attività “CasaMangrovia” della nostra Caritas diocesana. Ma significa anche aiutare il terzo settore a rivedere in senso identitario il suo stare nella società, magari con il coraggio di liberarsi – quando si sente legato – dalle manette del beneficio economico.

Negli ultimi trent’anni, il sistema di protezione sociale dei paesi occidentali si è molto ampliato e specializzato. Poco alla volta abbiamo assistito alla nascita e al moltiplicarsi di molti servizi per le persone. Anche nella Chiesa si sono aperti tanti sportelli e tanti servizi. La crisi globale nella quale siamo caduti che – lo ricordo – non è solo di natura economica o finanziaria, ma anche etica ed antropologica, ci ha messi di fronte alla necessità di accettare una svolta antropologica, un ritorno alle radici dell’umanesimo vero. Sarà proprio questa la prospettiva del grande convegno ecclesiale di tutte le Chiese italiane in programma a metà del presente decennio a Firenze.

Anche nell’ambito della solidarietà e del welfare mi pare sia necessario ed urgente ricentrare i modelli e i percorsi sulla persona, mettendo quasi in secondo piano l’attuale centralità dei servizi. Centralità che significa capacità di ascoltare l’altro, di dargli credito, di considerarlo nella sua autonomia e di lavorare perché mai cada fuori dal prezioso ambito della propria dignità. Un atteggiamento che è soprattutto stile, più che semplice metodo, e che mira a creare un legame vero e profondo con le persone in vista di una loro progressiva liberazione. Ma anche in vista della costruzione di territori di fraternità in cui sia possibile sperimentare la “cura” del cuore, quella che Gesù in tante azioni del suo ministero ci ha consegnato. La vera assistenza è stare accanto e non mettersi al posto. Una sorta di accompagnamento esistenziale nel quale poi è possibile uno scambio di doni tra quello che il più povero può mettere in gioco e quanto noi possiamo condividere. Curando anche un approccio multidimensionale alla persona che non vive di solo pane, come scrivono i Vangeli, ma anche di parole che danno senso all’esistere.

Lei ha sempre dimostrato grande sensibilità alla condizione delle persone “senza dimora”, come intende portare avanti questa sfida?

Le persone senza dimora rappresentano un punto avanzato di problematicità, ma anche un’occasione stupenda per realizzare quella centralità della persona che è uno dei tratti tipici dello stile di vita cristiano. Sono tra i più poveri della nostra società ma non tanto perché mancano di casa e di mezzi, quanto perché sono messi al margine, sono esclusi totalmente e, ancor peggio, sono spesso ignorati.

Arrivato da poco in questa città, mi sono incontrato con un fatto che la mia coscienza di uomo, quella di cristiano e quella di pastore non poteva tollerare: una persona è stata trovata priva di vita in una delle più centrali vie torinesi, schiacciato dal freddo dell’inverno. Mi sono sentito dentro la necessità di portare a galla il disagio della mia coscienza, chiedendo anzitutto a chi condivide con me la fede in Gesù di Nazaret uno scatto di verità e di giustizia. L’ho chiesto anche alla società civile e a quanti sono capaci di lasciarsi interpellare dai segni dei tempi. L’ho fatto attraverso l’incontro diretto, la vigilia del Natale, con un gruppo di persone della strada, invitandone poi alcune a casa mia il giorno dopo la festività per un pranzo insieme. Dialogando con loro ho sperimentato un metodo che ho provato a offrire alla nostra gente: quello del mettersi davvero in ascolto delle richieste dei poveri. E loro non si sono fatti pregare.

È nata così l’idea di dar vita a un centro diurno per queste persone, inaugurato nel febbraio scorso in via Giolitti: “La sosta”. E allo stesso modo è nata l’idea del progetto “Un angolo di casa” per piccole ospitalità invernali in strutture parrocchiali, seguito da alcune parrocchie tra cui la centralissima parrocchia di Piazza San Carlo. E sulla stessa strada si sta costruendo adesso una mensa serale per chi, a motivo di età o precarie condizioni di salute, non può accontentarsi dei panini serali.

Povertà e cultura è un binomio al quale più volte in passato ha fatto riferimento, perché è da ritenersi una priorità?

I poveri sono persone e come tali si realizzano solo attraverso percorsi di dignità. E questa si attua nel lavoro, nella possibilità di avere reti interpersonali, nella possibilità di esercitare i diritti, nella crescita intellettiva e affettiva. In tale percorso la cultura, il bello, l’arte, le varie espressioni artistiche e spirituali sono strumenti di eccezionale portata. Attraverso il bello la persona può meglio realizzarsi. È per questo che ritengo che la cultura sia un alto strumento di promozione umana, ed è in questo senso che ho lanciato la proposta che ci siano opportunità per offrire la fruizione del bello anche a chi economicamente non se lo potrebbe permettere.

Ho avuto significativi riscontri che mi incoraggiano a rilanciare la cosa. Un museo si è dato disponibile per visite guidate e in occasione della festa patronale potrebbe esserci una bella sorpresa di grande arte nel luogo simbolo della cultura torinese. Ma la cosa non può fermarsi lì. Penso, infatti, al ruolo della bella urbanistica nei nostri quartieri, del bello anche dentro ai luoghi di servizio e accoglienza per i più poveri, alla bellezza della liturgia, alla bellezza delle relazioni nella comunità. La cultura è il modo di espressione di un popolo, non quello di una nicchia di persone illuminate. Donare e donarsi cultura è indice di civiltà.

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