Noriega, il generale che scherzava col fuoco
«Ci svegliò un forte rumore. Mio fratello mi gridò: “Gli Stati Uniti ci stanno invadendo”. Salimmo al secondo piano e da lì vedemmo il fuoco nella notte. Mi sentii alleviato. Vivevamo in dittatura ormai da 21 anni, e sapevamo che in parte era stata prodotta dagli Usa. Quindi pensai che quello era l’unico modo in cui Panama avrebbe potuto avanzare».
È ciò che racconta della notte del 20 dicembre 1989 Enrique Jelenszky, collaboratore della Nunziatura, dove il generale Noriega, capo del governo de facto, si era rifugiato; e che servì da traduttore per negoziare la sua resa ai soldati statunitensi che l’assediavano, avvenuta il 3 gennaio.
L’ultimo dittatore militare latinoamericano è morto martedì 30 maggio, in seguito a complicazioni subentrate a un’operazione chirurgica. Si trovava agli arresti domiciliari, dopo anni di carcere negli Usa e in Francia – dove ha scontato condanne per narcotraffico, riciclaggio di denaro e vincoli con il crimine organizzato – e in patria (dal 2011), per assassinii e scomparsa di persone durante il suo regime.
Fino all’ultimo, Noriega ha negato le accuse. Tuttavia, nel 2015, è apparso in tv dalla prigione per chiedere perdono per le sue azioni durante i regimi militari, che condusse come massima autorità tra il 1983 e il 1989.
Che cosa ha fatto quest’uomo per far sì che gli Stati Uniti decidessero di toglierlo dalla circolazione invadendo Panama con 24 mila soldati – all’epoca il maggiore spiegamento di forze dopo il Vietnam-?
“Cara de piña” (faccia d’ananas) era stato per anni un canale di informazioni con la CIA e dittatore allo stesso tempo. Un gioco pericoloso, che gli permise di fare ciò che voleva ma che finì per sancire la sua sconfitta.
Nato nel 1934, era stato abbandonato piccolissimo dalla madre, ed aveva poi optato per la carriera militare giacchè la sua famiglia adottiva non poteva permettersi di pagargli gli studi di medicina.
In Perù, dove si trovava per una borsa di studio dell’Esercito, fu reclutato dall’agenzia di intelligence degli Stati Uniti come informatore.
Di ritorno a Panama, giunse in poco tempo al comando della giurisdizione militare di una provincia; e nel 1968, come ricompensa per la sua lealtà verso il generale Omar Torrijos, fiammante dittatore, ascese a capo dei servizi segreti militari: in pratica, il secondo uomo più potente del Paese.
Intanto il suo rapporto con la Cia continuava, mentre cominciavano anche a circolare i primi sospetti di attività illecite come traffico di armi e di droga, vincoli col crimine organizzato e le accuse di torture e sparizioni forzate di oppositori del regime militare.
Dopo la morte di Torrijos in un incidente aereo (1981), Noriega divenne generale e poi comandante in capo delle Forze armate: ovvero, governante de facto del Paese – formalmente, continuò ad esserci un presidente della Repubblica durante tutti quegli anni, ma senza nessun potere.
Negli anni in cui la regione era scossa dalle guerriglie nel Salvador e in Nicaragua – dove aveva trionfato la rivoluzione sandinista, e con i pericoli dell’influenza cubana e quindi dell’Unione Sovietica – Noriega divenne un alleato prezioso per gli Stati Uniti, che facevano orecchie da mercante alla crescita del malcontento e dell’opposizione al regime panamense; e anche ai ripetuti indizi di suoi rapporti con altri servizi segreti e coi narcos.
Il dittatore si difendeva dalle accuse tacciandole come calunnie intese a infangare le autorità panamensi con lo scopo di impedire l’attuazione del trattato Torrijos-Carter, che stabiliva la restituzione del controllo del Canale interoceanico costruito ed amministrato dagli Usa a Panama dopo il 1999.
Ma nel 1987 le dichiarazioni alla stampa di un ex capo di Stato maggiore dell’esercito resero insostenibile l’appoggio degli Stati Uniti: il generale Roberto Díaz Herrera accusava Noriega di narcotraffico, di frode elettorale, della decapitazione di un leader oppositore, e di aver orchestrato la morte del suo predecessore, il generale Torrijos.
La moltitudine di manifestazioni di protesta popolare furono duramente represse dal regime, che strinse ulteriormente la morsa decretando lo stato d’emergenza e sospendendo le garanzie costituzionali.
Il Senato Usa si pronunciò richiedendo le dimissioni di Noriega, e mesi dopo un tribunale federale statunitense lo accusava di vincoli con il Cartello di Medellín, quello di Pablo Escobar.
Questi indurì ancor di più il pugno di ferro verso gli avversari politici; mentre Noriega andò assumendo posizioni sempre più antistatunitensi, fino a dichiarare il Paese “in stato di guerra” con il gigante del Nord. La situazione precipitò quando a Città di Panama un marine statunitense fu assassinato a colpi d’arma da fuoco da militari panamensi.
Il presidente George H. W. Bush dichiarò allora che tutti i tentativi per risolvere diplomaticamente la crisi erano stati rifiutati dal dittatore, e che la sua continuità al potere costituiva «un pericolo imminente per i 35 mila cittadini statunitensi residenti a Panama». Diede quindi il via all’invasione per proteggerli, «per difendere la democrazia e i diritti umani, combattere il narcotraffico e assicurare la futura neutralità del canale». E catturare Noriega.
Martedì, con la sua morte, si è chiusa un’epoca: quella delle sanguinarie dittature militari latinoamericane, in un continente che pagò in questo modo, oltre che con le lotte armate delle guerriglie, il prezzo più alto – quello di decine di migliaia di vite umane – della Guerra Fredda fra due potenze e due ideologie che si divisero il mondo, sfruttando le miserie di uomini spietati come Noriega.
E anche se la democrazia, la libertà, i diritti umani e la giustizia sociale sono ancora una chimera per tanti abitanti di questo continente, mentre le profonde ferite di quell’epoca si rimarginano con lentezza, è sempre più evidente che i latinoamericani non sono più disposti a tollerare il terrore e l’impunità.
Lo Stato panamense ha instaurato lo scorso luglio una commissione investigativa per chiarire il numero e l’identità dei morti durante l’invasione statunitense e proporre modalità di riparazione, quasi 27 anni dopo. Gli Stati Uniti, che affrontano una denuncia presso la Corte interamericana dei Diritti umani per i crimini commessi durante l’invasione, hanno chiesto alla Corte di rivedere l’ammissibilità del caso e di sospenderne l’andamento fino al termine dei lavori della commissione panamense, alla quale hanno offerto collaborazione.
I numeri ufficiali divulgati all’epoca parlano di 300 militari e 214 civili panamensi e di 23 militari statunitensi deceduti, ma organizzazioni della società civile ritengono che siano oltre mille.
La commissione ne ha finora identificati 323.
Panama oggi è il Paese più prospero dell’America Centrale, con un Pil procapite di oltre 19 mila euro, circa il triplo dei suoi vicini El Salvador e Guatemala, e il quadruplo del Nicaragua. Solo il Costa Rica gli si avvicina con circa 14 mila.
È di gran lunga il primo destinatario degli investimenti stranieri diretti, anche grazie alla zona franca di Colón, la più grande delle Americhe e seconda a livello mondiale. L’economia gravita soprattutto attorno ai proventi del Canale di Panama e al suo indotto.
Città di Panama è un’importante metropoli commerciale, con sedi delle più importanti multinazionali a livello globale, ed è meta d’eccezione per lo shopping di lusso a prezzi molto competitivi.
È tra i primi 4 Paesi latinoamericani per qualità istituzionale, efficienza politica, rispetto dei diritti politici e delle libertà civili e democrazia economica, secondo uno studio della fondazione tedesca Konrad Adenauer, solo dietro a Uruguay, Costa Rica e Cile, con un notevole miglioramento dopo gli scandali post-presidenza di Ricardo Martinelli (2009-2014) denunciato per delitti economici contro la pubblica amministrazione e spionaggio e intercettazioni telefoniche di oppositori.