Non toglieteci la terra
Circa sette euro l’ora, 57 euro al giorno lorde, è il costo del sudore di Filippo. Ha 34 anni e fa il contadino da quando ne aveva 19. Il suo compito è irrigare gli sterminati campi di una delle aziende agricole più floride della Sicilia orientale. Pompa e palmare sono i suoi strumenti di lavoro per calcolare tempi e intensità dell’irrigazione. «Capisci bene che in estate e durante il raccolto otto ore non sono sufficienti».
Giorgio, invece, coltiva grano e mais a Crevalcore, in Emilia. Qui il terremoto dello scorso maggio sembrava non avesse fatto danni. E invece sono tante le buche scoperte tra le spighe. In una di queste c’è finito il suo trattore. Ruota da riparare. Costo 180 euro: «Circa cinque quintali e mezzo di grano», afferma con ironia Giorgio. Lui valuta così le spese necessarie a mantenere rigogliosi i cento ettari della sua proprietà. «Quest’anno produrre un chilo di pere mi è costato 37 centesimi, ne ho guadagnati 27, a chi conviene questo mercato?».
Le storie che vengono dalla terra hanno poco dell’ingenuità contadina che i comici Aldo, Giovanni e Giacomo interpretano nello spot di una nota azienda di telefonia che impazza sui nostri schermi. C’è la fatica e c’è l’hi-tech (alta tecnologia), c’è l’incertezza della produzione e la speculazione della grande distribuzione, ci sono le sperimentazioni delle filiere corte e i business plan: il prototipo del contadino moderno è ben altro.
La speculazione agricola
Ha dovuto far fronte in meno di quattro anni a due crisi del settore, con impennate spropositate dei prezzi e fasi discendenti vertiginose con cali di redditività del 12 per cento: il 2009 è stato l’anno peggiore, con il grano quotato a 13,50 euro al quintale. La finanza speculativa non si è certo tirata indietro odorando succulenti affari. Ha emesso titoli, talvolta poco limpidi, che sulle oscillazioni del prezzo dei cereali hanno determinato le fortune di pochi e la rovina di molti, poiché se il costo dei cereali usati per produrre combustibile sale, i contadini si attrezzano per la futura stagione con investimenti in terreni, macchine, semina sperando in un guadagno maggiore. Peccato che ci voglia un anno per avere in mano un prodotto, che la Borsa in pochi mesi e talvolta in qualche settimana ha già svalutato, rendendolo poco appetibile e per niente redditizio. Restano sul tappeto i debiti contratti e le riserve invendute.
Una campagna amica?
La terra comunque continua ad attrarre. Una ricerca di Confagricoltura conferma che lo scorso anno c’è stato un incremento del 32 per cento sulla creazione di aziende agricole. E tra i nuovi imprenditori parecchi sono giovani, perché più l’agricoltura diventa tecnologica e innovativa più attrae gli under 40. Sono trentamila in Italia le aziende gestite da questa fascia d’età, mentre crescono le immatricolazioni nella facoltà di agraria che dà lavoro a un anno dalla laurea a parecchi suoi studenti.
Dati confermati anche dai primi numeri del Censimento generale dell’agricoltura effettuato dall’Istat nel 2010: il 25 per cento di chi lavora nei campi ha un diploma. L’indagine rivela che in Italia sono censite un milione e 600 mila aziende attive di media dimensione, con una concentrazione al Nord di quelle più estese. Diminuiscono i seminativi e le superfici destinate a orti familiari, mentre la proprietà è la forma prevalente di conduzione, anche se si registra una lieve crescita nei terreni in affitto.
Le donne sono la vera sorpresa: le imprese a conduzione rosa sono il 33,3 per cento. Lauretta ha 56 anni, ne aveva 41 quando il marito è morto e le ha lasciato quattro ragazzi e un’azienda zootecnica: cento capi e venti ettari di terra. Due dei suoi figli lavorano con lei, gli altri no «perché lo stipendio non è sufficiente». A Vicenza gestisce anche corsi di formazione aziendale per donne ed è una tenace. Comincia la sua giornata alle cinque del mattino e talvolta termina alle 21: «Anticipo un po’ rispetto ai ragazzi per preparare la cena», confessa timida. È soddisfatta del suo lavoro, sa che non diventerà mai ricca perché non remunerata adeguatamente, ma vorrebbe “il giusto” e spendere i cento giorni richiesti dalle pratiche burocratiche, più nell’azienda che negli uffici.
Ines, invece, si è inventata un agriturismo a Ne, vicino Chiavari (Ge), per dar respiro alla sua piccola tenuta. Da 11 anni offre ai clienti i prodotti genuini del suo orto e il passaparola ha generato un bel giro. Accorciare la filiera che dal produttore porta sulla tavola e non agli scaffali dei grandi ipermercati con ricarichi anche del 200 per cento è stato uno degli impegni della Coldiretti con la promozione di Campagna amica, piccoli punti vendita direttamente gestiti dal produttore. Una scelta premiata dai consumatori perché nel 2011 sono stati nove milioni gli italiani che hanno scelto l’acquisto diretto o di persona o attraverso i Gas (Gruppi di acquisto solidale).
Tra criminalità e distribuzione
Giuseppe Cucuzza ha 43 anni e apprezza l’iniziativa. La sua azienda nel Val di Noto (Sicilia orientale) coltiva zucchine e carciofi e con la vendita diretta non avrebbe ricavi sufficienti per le 12 famiglie dei suoi operai. Esporta nel Nord e in Francia. «Quest’anno mi hanno offerto 50 centesimi al chilo per le zucchine. A Bergamo mia sorella le ha comprate scontate a 2,99 euro. Vedere deprezzato il marchio della nostra azienda è stato un colpo». La grande distribuzione gli ha talvolta contestato la merce, ma il costo di un volo per controllare di persona era eccessivo e poi la sua merce non è a lunga conservazione.
Catastrofico è l’aggettivo che accompagna i suoi numeri: da gennaio a oggi duemila persone sono rimaste senza lavoro. Ha speso 70 centesimi per un chilo di semenza di grano, ne ha ricavati 18 dopo la trebbiatura. I prestiti agrari sono diventati ipotecari con tassi del nove per cento, mentre i pagamenti sono anche dilazionati di sei-otto mesi. Ha davanti i ventimila euro dell’Imu chiesti per il terreno. E i concimi, il gasolio? Come andare avanti se poi sui carciofi dei suoi concorrenti egiziani i controlli sono ridotti all’osso e i tempi per i suoi portano al deperimento del prodotto?
La concorrenza nell’azienda casertana di Alessandro Falco ha un nome preciso: Nco – Nuova camorra organizzata. «Sa stare sul mercato, ha una filiera diretta e centinaia di operai in nero, mentre noi facciamo fatica a fare massa critica tra i produttori, a creare sinergie e a dire “no” alle multinazionali dei succhi di frutta che mi hanno proposto un centesimo al kilo per le pesche e sette per le albicocche. Ho detto “no”, ma gli altri?».
Sono 350 mila gli agricoltori che devono fare i conti con racket, pizzo e furti secondo il rapporto della Confederazione italiana agricoltura. Sono 240 i reati subìti ogni giorno mentre per debiti e usura sono in ginocchio 25 mila aziende agricole. Consorzi e associazioni, come quelle che lavorano sui terreni confiscati, possono essere un’ancora di salvezza, perché si fa rete e c’è la società civile che sostiene gli acquisti.
Cinque ministri e poca politica
Che manchi un progetto politico sul settore ne è prova il ricambio costante dei ministri dell’Agricoltura: cinque in quattro anni. Due di questi, Zaia e Romano, occupano le cronache di questi giorni per aver condotto sull’orlo del fallimento due delle agenzie dipendenti dal loro ministero: la Buonitalia, che avrebbe dovuto promuovere i prodotti made in Italy e che si trova invischiata in consulenze poco trasparenti e pagamenti inevasi; e la Sin, il sistema integrato nazionale per lo sviluppo dell’agricoltura che ripartisce i fondi europei e che si ritrova un consiglio d’amministrazione stravolto e inefficiente con stipendi stratosferici e spese smisurate.
Intanto il governo Monti, con l’accorpamento in quattro agenzie degli undici enti legati al ministero e con il decreto sulle liberalizzazioni che mette in vendita i terreni demaniali ad uso agricolo, vuole dare maggiori risorse al settore, visto che gli aiuti previsti nella prossima Programmazione agricola comune ai Paesi Ue vedranno una riduzioni del 6 per cento. Attenzione però a questi terreni e a chi intende metterci le mani: la clausola che favorisce i giovani nell’acquisto non tutela dalla rapacità di spregiudicati costruttori che potrebbero chiedere il cambio di destinazione d’uso e dalla stessa criminalità organizzata, che potrebbe invece utilizzarli per reciclare soldi sporchi. Anche alle multinazionali affamate di terreni per produrre cibo industriale o energia queste terre fanno gola.
La proposta di Aiab, Slow-food, Legambiente e di altre cento associazioni è di affittare le proprietà del demanio per garantirne un controllo pubblico e un corretto utilizzo. «L’Italia ogni giorno perde 70 ettari di coltivazione per abbandono o per cementificazione. Le leggi della finanza, il risanamento e la crescita del Pil (l’agricoltura contribuisce con il 15 per cento) – ha ribadito Sergio Marini, presidente di Coldiretti – non possono essere l’unica misura dello sviluppo di un Paese, se impoveriscono le famiglie e i territori. La speculazione non può vincere su etica e lavoro». Forse oggi sviluppo è anche un prato verde e un campo coltivato, come beni comuni.
La storia
L’amore per la terra si insegna
Giorgio Balduzzi ha una vocazione radicata per la terra: 26 anni di lavoro diretto su 210 ettari di terreno coltivati come vigneto, uliveto e seminativo. Questa è l’entità dell’azienda Fattorie di Loppiano, che nel Valdarno ha recuperato un terreno abbandonato grazie all’impegno di tanta manodopera volontaria e alla spiritualità di Chiara Lubich, che in questo territorio ha voluto sviluppare una cittadella che testimoniasse la fraternità e la comunione non solo tra le persone, ma anche tra le attività produttive.
I soci di questo progetto, sparsi in tutta Italia sono circa quattromila, dieci gli operai che lavorano a tempo pieno i campi e 220 sono i prodotti biologici venduti da Terre di Loppiano, il ramo commerciale che ha aperto otto punti vendita in Corea e si accinge ad entrare nel mercato Usa.
La vostra attività non conosce la crisi?
«La conosce bene invece: non siamo stati risparmiati. Essendo una cooperativa, avremmo potuto chiedere un aumento di capitale ai soci e invece abbiamo scelto di abbassare e uniformare lo stipendio di tutti per provare a recuperare. Inizialmente eravamo ottimisti, poi l’entusiasmo è cominciato a scemare, i mutui erano sempre lì, le spese non calavano ma ci siamo sostenuti in questa scelta ed è accaduto che qualcuno desse anche una parte della sua paga a chi quel mese era più in difficoltà. È cambiato il valore che davamo alle cose e ora anche l’acquisto di una penna è valutato diversamente. Certo, se anche la burocrazia ci impegnasse meno, potremmo avere più energie per l’azienda».
Ma non può essere l’unica soluzione…
«Le modalità di consumo sono cambiate, quindi anche la nostra strategia aziendale doveva farlo: abbiamo investito sul biologico, sulla vendita online con un sito che mette in rete prodotti di diverse aziende che con noi hanno fatto una scelta etica nella produzione. Ci siamo aperti al turismo con una struttura che offre alloggi per vacanze e poi abbiamo aperto una fattoria didattica dedicata ai bambini delle scuole vicine. A luglio ne sono arrivati circa mille. Con loro facciamo un percorso che non si esaurisce con la visita: spieghiamo i ritmi della natura, seminiamo un terreno e li invitiamo a coltivarlo. La continuità genera amore per la terra».
Questi valori hanno un prezzo…
«I nostri prodotti vanno spiegati. Dietro ci sono persone in regola e non in nero, c’è un olio biologico al cento per cento, ci sono giovani che hanno investito in questa attività, c’è un valore aggiunto nell’essere dentro un progetto come l’Economia di Comunione, c’è l’educazione del consumatore, c’è qualità anche nei rapporti tra produzione, commercializzazione e acquirente. Un cliente mi ha detto: “Userò quest’olio come oro perché so come viene fatto”. La gente apprezza e sul mercato c’è posto per noi e per il discount».
Informazioni su www.terrediloppiano.com