Non stiamo mica giocando!
Per le strade non si vedono più ragazzini che giocano a pallone. L’allarme di Marcello Lippi, commissario tecnico del calcio italiano, ha acceso la riflessione su una verità trascurata da anni: i ragazzini giocano sempre meno a pallone, non lo percepiscono più come un gioco loro, come un pezzo d’infanzia, ma come un passatempo televisivo degli adulti. Un’invadente varietà di chiacchiere, di polemiche e dispute fiscali e politiche che li esclude, annacquando fino a percentuali trascurabili il sapore rarefatto del gol, un pane soffocato da troppo companatico. Al coro, inascoltato, dei genitori che si rifiutano di portare i bambini in stadi consegnati in mano a cosche di ultras, che li controllano indisturbate in un clima di insulti e di violenza, si aggiungono le voci meno percettibili, ma più esiziali, dei ragazzini che in testa hanno altri palinsesti, lontani dal pallone. L’Italia era una repubblica fondata sul pallone quando il calcio in tv ci andava col contagocce: non lo è più ora che l’offerta è sproporzionata. Alla disaffezione al tradizionale giocattolo degli italiani lo stesso Lippi ha cercato di dare una spiegazione: uno sport svuotato nei vivai, e addirittura nelle motivazioni, da un benessere che impigrisce. Per generazioni di italiani lo sport è stato uno dei veicoli del riscatto sociale: l’adrenalina sul campo veniva anche dallo stomaco vuoto. L’epopea del sudore, la fatica boia di arrivare in cima, viva in parte ormai solo nel ciclismo, non riesce a balenare neppure per un attimo nelle figure di atleti occupati a pubblicizzare profumi e capi firmati. Le oasi monocalcistiche sopravvivono solo nei paesi poveri: la percentuale maggiore di giocatori che sfondano viene da zone dove non c’è un euro, dove non c’è consumismo, dove i campi sono polverosi e le palle sono ancora fatte di stracci. La supremazia fisica dei calciatori africani è oggi palese: conoscete un calciatore italiano che abbia il coraggio di esultare con le capriole di Martins o di Obinna? Nello sport post-moderno, infarcito di spot, non solo l’esultanza ha perso la sua selvatica semplicità, ma è l’interesse per la pratica sportiva in generale a venir meno. Io in piscina non ci torno: non mi diverto a nuotare ogni volta 44 vasche. La questione, sollevata da Maria Stella, 8 anni, la nostra piccola di casa, è seria: lo sport proposto ai ragazzi ha perso il sapore del divertimento. Un recente sondaggio sui gusti e le passioni dei ragazzi europei lascia sorpresi: veloci ed abili con la tecnologia, si sfidano alla Playstation, adorano i cellulari, ma poi confessano (72 per cento) di sognare l’aria aperta, un cortile o un giardino da dividere con gli amici, una bici per cominciare a sentirsi grandi. E denunciano di non poterlo fare perché i genitori considerano non sicuri questi luoghi e, gli italiani, perché ci sono troppi compiti da fare. Questi numeri – ha commentato la psicoterapeuta Maria Rita Parsi – dimostrano quanto sia innaturale il mondo in cui crescono i bambini, costretti a sognare un parco, ideale di libertà, e quanto la tecnologia sia, in buona parte, una dipendenza indotta. Lo stesso telefonino rappresenta un desiderio di omologazione e di consumo, ma, allo stesso tempo, la manifestazione dell’ipercontrollo dei genitori. Da noi si salvano quelli che hanno nonni o parenti al paese e possono sperimentare l’ebbrezza di andare liberi per fossi. La ricerca ha svelato anche che i genitori italiani spenderanno a Natale 118 euro a bambino in giocattoli (107 la media in Europa, 62 in Belgio): È bene non scordare – commenta la Parsi – che per un bambino il miglior dono è il tempo che gli si dedica. Il problema è che spesso gli adulti, genitori, insegnanti, allenatori, considerano il gioco come un’attività improduttiva, che fa perdere tempo. Nelle società sportive – denuncia la pedagogista Lucia Castelli, consulente dell’Atalanta – il divertimento è considerato una componente secondaria nella seduta di allenamento: gli allenatori inseguono prioritariamente i risultati ed il successo, relegando in secondo piano gli aspetti educativo – formativi. Il motto è: Impegnati! Non stiamo giocando!. Molti genitori mostrano aspettative non commisurate alle reali capacità dei propri figli, i quali si sentono inadeguati all’attività sportiva agonistica scelta (da loro?) e si mostrano dispiaciuti di deludere i propri cari. Lo sport che non diverte non appassiona e se non appassiona provoca l’abbandono precoce e magari definitivo della pratica sportiva, evento comune verso i 14 anni. Il gioco – spiega ancora Castelli – è relegato nello sport alla fine dell’allenamento, se rimane tempo, o tuttalpiù adoperato come premio o ricatto al buon rendimento scolastico ed al comportamento corretto. Ma il gioco non è un premio. È un diritto. E per i bambini è qualcosa di molto serio, il lavoro principale, mai un’attività banale. L’intervento teso a restituire dignità e tempo al gioco, secondo Lucia Castelli, va orientato su due fronti: gli adulti ed i ragazzi. È importante far capire agli adulti che il gioco soddisfa i bisogni tipici dei ragazzi e li fa competenti nelle abilità sociali e relazionali. In concreto: i genitori potrebbero aumentare le occasioni e i tempi per il gioco, magari regolamentando l’uso della tv e favorendo un’ora di gioco motorio giornaliera per i propri figli; gli allenatori potrebbero, ad esempio, sfruttare il tempo del riscaldamento per proporre attività ludiche o introdurre il terzo tempo al termine della partita ufficiale per garantire a tutti i giocatori, anche i meno bravi, l’opportunità di giocare. Non dovrebbe invece essere difficile far riscoprire ai ragazzi il gusto del movimento: Occorre far leva sul piacere che provoca il movimento in sé, sulla possibilità che offre di conoscere sé stessi, sul miglioramento dello stato di benessere, sul raggiungimento di sempre migliori prestazioni personali, sul desiderio di condividere una passione con gli amici. Chissà che non vedremo presto un bambino italiano tornare a fare capriole.