Non solo stupri
Due notizie, una buona, l’altra no. La prima è che gli omicidi in Italia sono calati. Così segnala una ricerca del Viminale secondo la quale nei primi sei mesi del 2008 si è registrata una diminuzione del 10,1 per cento dei reati commessi rispetto all’anno precedente. La seconda notizia, sempre derivata dalla stessa ricerca, ci dice che a fronte di una situazione generale tutto sommato in miglioramento, aumenta in maniera vertiginosa il numero di omicidi avvenuti in famiglia: siamo passati dal 14,3 per cento del totale nel 2005 al 24,7 per cento nel periodo preso in esame, il primo semestre dell’anno scorso. Vale a dire che un omicidio su quattro si consuma tra le mura domestiche.
Non si fa fatica a crederlo: la cronaca quasi quotidianamente riporta notizia di mariti che ammazzano le mogli, di madri che uccidono i figli, di figli che fanno fuori i genitori. A farne le spese sono soprattutto le donne, dentro e fuori la fami- glia. Secondo una indagine condotta telefonicamente dall’Istat, sarebbero 6 milioni e 743 mila le donne tra i 16 e i 70 anni ad aver subìto una violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. E se gli stupri consumati per strada fanno notizia e scatenano ondate emotive soprattutto contro gli stranieri di turno (che poi, dati alla mano, non ne sono più frequentemente gli autori), molto più grande è il numero delle violenze di cui nessuno viene a conoscenza: ben il 96 per cento del totale. Problemi di natura economica, follia, incapacità di gestire situazioni difficili, malattie che si protraggono, paura che lei o lui se ne vada da casa, incapacità di comunicare, egoismo, rancore… Tante le cause scatenanti e unico il punto di domanda: perché proprio in famiglia questa escalation? Quello della violenza domestica è uno dei campi maggiormente esplorati nell’ambito della criminologia, mentre le scienze sociali da tempo già hanno suonato un campanello d’allarme. Qualcuno ha provato a darne una spiegazione. C’è chi dice si tratti di una conflittualità interiore connessa al cambiamento dei ruoli familiari e sociali dei membri del nucleo di appartenenza; chi, come Paolo Albarello, esperto di medicina legale, sostiene che il nucleo familiare diviene sempre più di frequente il luogo di implosione delle inconciliabili aspirazioni di affermazione sociale; chi, ancora, evidenzia una stretta correlazione tra la violenza e la rottura dell’unità familiare in vista di una separazione o di un divorzio. E nella direzione di quest’ultima tesi sembrano andare alcuni dati secondo i quali gli omicidi sono più frequenti al nord, nella misura del 68 per cento. Per alcuni esperti questo dato infatti sarebbe legato al fatto che le donne al nord hanno più possibilità di raggiungere un’indipendenza economica e quindi più facilmente abbandonano il partner con cui si trovano in difficoltà. E spesso è proprio il momento dell’ultimo chiarimento quello più a rischio.
Ma a scatenare l’atto estremo, secondo Isabella Merzagora, titolare della cattedra di criminologia alla facoltà di Medicina di Milano, non sarebbe la vecchia gelosia, ma la fragilità dell’uomo nella gestione della separazione affettiva e coniugale, il fatto di dover accettare una decisione non voluta, di perdere una proprietà più che un affetto. E d’altra parte c’è chi evidenzia come si assista a volte, da parte della donna, ad una sorta di assassinio premeditato che giorno dopo giorno ferisce il marito con le proprie rivendicazioni, a volte frutto di egoismo esagerato. Certo è che l’esplosione della violenza quasi mai avviene in maniera improvvisa. Possono esserci segnali premonitori che vanno colti: linguaggio aggressivo e mancanza di rispetto; frequenti attacchi di irascibilità; ricorso all’alcol, tendenza a mortificare l’altro. Quando uno o alcuni di questi segnali sono presenti con una certa frequenza… meglio non aspettare. E chiedere aiuto prima che sia troppo tardi: a una coppia di amici, a un consultorio familiare, a uno psicologo, ai servizi socio-assistenziali. Quanto è importante una rete sociale di relazioni profonde che permettono di condividere tutto! Per non sentire più dire al tg dai vicini di casa o dai parenti: Erano persone normali, non davano fastidio, non avevamo notato niente di strano nel loro rapporto.
Aspetto questo che approfondiamo nell’intervista col prof. Gamaleri. Cosa si può fare? Soprattutto far crescere la cerchia familiare più grande, della quale fanno parte anche i nostri vicini, i colleghi, gli amici, oltre ai parenti. Perché la prima ferita, quella da cui tutto comincia, è quasi sempre la solitudine, male di questo secolo.
PORTARE FUORI I PROBLEMI
Intervista col prof. Gianpiero Gamaleri, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università Roma Tre.
Un delitto su quattro avviene in ambito familiare e il più delle volte nel darne notizia si usa definirlo inspiegabile. Davvero è così?
"L’impressione è che problemi dentro la famiglia ce ne siano da molto tempo, anzi ci sono sempre stati; solo che molto probabilmente erano rimasti occulti. Adesso ci si va accorgendo che gli episodi di violenza sono molto più diffusi e riguardano certe famiglie che viste dall’esterno sembrano normali".
Come mai?
"Io credo che molto sia dovuto alla presenza della televisione, dei nuovi media, i quali, se da una parte violano l’intimità familiare, dall’altra portano allo scoperto le difficoltà e questo è un elemento positivo. L’emancipazione femminile, poi, ha costretto la famiglia ad aprirsi e a portare fuori i problemi che sono al suo interno. Inoltre, mentre nelle strade di città europee o degli Stati Uniti si vedono molte persone con handicap circolare liberamente, da noi questo non avviene. E siccome le statistiche sono le stesse c’è da presumere che siano rinchiusi nel nocciolo familiare. E c’è anche l’aspetto del lavoro. L’indice di occupazione non è solo un indice economico, è anche un indice sociale di dignità dell’uomo e della donna, in funzione della loro realizzazione, del loro contributo alla società. Quanto può incidere presentare dei modelli di vita facile, cioè senza dolore, senza malattia, senza la capacità di soffrire per amare… Diciamo che oggi la figura di Giobbe, uomo o donna, cioè di una persona che pazientemente sopporta una situazione di disagio, rappresenta il personaggio più impopolare che possa esserci nella nostra società civile. Però bisogna ammettere, anche se non voglio fare un elogio generalizzato fuori luogo, che da parte della donna c’è molto spirito di servizio, molta tolleranza e spesso questi casi estremi emergono quando diventano assolutamente insopportabili, anche perché è molto doloroso confessarli. In quest’ottica possiamo rilevare che alcune fiction americane e italiane ispirate ad un criterio di giustizia e di verità hanno aiutato le donne a liberarsi da questo tipo di segreti e a portarli in superficie. Molto meno lo hanno fatto i talk show".
La cronaca nera quotidiana e particolareggiata finirà per innalzare la soglia emotiva della coscienza sia singola che collettiva?
"Qui ci sono due elementi contrastanti. Da una parte c’è il rischio dell’assuefazione, ma dall’altra c’è la necessità che i casi emergano. Quindi l’informazione dovrebbe stare sulla soglia dell’approfondimento, evitando quello della morbosità. È un crinale molto difficile da percorrere, ma credo che complessivamente il buon giornalista cerchi, sulla base di un criterio etico, di percorrere questa strada. Rimane il fatto che molti casi rischiano di diventare emblematici e quindi di avere una certa ritualità informativa che oscura tutto il resto".
Quali i rischi di un’informazione superficiale?
"Basti pensare che nell’arco di due o tre anni l’indice dell’importanza data dall’opinione pubblica al tema della sicurezza è passato dal 17 per cento al 35 per cento; quindi è il problema che gli italiani denunciano come il più importante. L’ultimo rapporto Censis si è interrogato sui motivi di questa paura, anche perché solo nel 20 per cento dei casi qualcuno ha vissuto un episodio che l’ha colpito direttamente. Si è visto che l’80 per cento di questa paura è indotta dai media sulla base anche di speculazioni politiche, bisogna dirlo. Dentro questa paura indotta, si situa anche la caccia allo straniero, visto come il potenziale nemico".
Un consiglio per una comunicazione corretta ed efficace?
"Il mio consiglio sarebbe quello di rilevare, non trascurare i casi, ma anche andare alla radice e quindi muoversi in un contesto di rispetto della persona".