Non solo stage
Forse perché l’hanno provato sulla propria pelle, ma loro – come affermano in un post sul loro blog – c’erano arrivati prima. Quando il ministro Fornero ha dichiarato di voler eliminare gli stage gratuiti, perché «il lavoro è lavoro e l’azienda lo deve pagare», i giovani giornalisti della cooperativa milanese FpS Media si sono permessi di far notare come nella loro carta dei valori stilata in tempi non sospetti – autunno del 2009 – questo principio ci fosse già: «Esiste solo una categoria di persone che lavora gratis: gli schiavi. Perciò, se mai dovessimo avere stagisti o collaboratori, sarà sempre loro riconosciuto almeno un rimborso spese. Il lavoro ha un valore e deve essere pagato».
La loro storia dimostra come il mercato del lavoro «ci ha aiutato a unirci», ha dichiarato in un’intervista al Tg regionale Paolo Scandale. Terminato l’Istituto di formazione al giornalismo “Carlo de Martino” – che ora ha chiuso i battenti – 17 dei 40 studenti, insieme a un tutor, hanno deciso di essere «non solo giornalisti, ma anche imprenditori», per rispondere alla prospettiva tutt’altro che rosea di stage e collaborazioni non (o mal) pagati: hanno così fondato FpS, una cooperativa di servizi giornalistici, a cui varie testate – da Radio24 a L’Espresso, a Repubblica – si rivolgono per commissionare articoli, video e molto altro. Un modo non solo per proseguire insieme l’avventura iniziata a scuola, ma anche per evitare l’abuso sul singolo: come spiegano nell’intervista che ci hanno rilasciato, soltanto insieme si ha la forza non solo di offrire un risultato finale qualitativamente diverso, ma anche di concordare compensi e condizioni di lavoro dignitose.
Ma quello del lavoro gratuito è un problema che va al di là degli stage: lo sanno bene gli aspiranti avvocati, che per accedere all’esame di Stato devono fare un praticantato di due anni. La situazione è molto diversificata nella penisola, ma generalmente «soltanto i grandi studi riescono a retribuire – spiega Ester Molinaro, giovane avvocato –, mentre i piccoli e i medi, soprattutto nel penale, non hanno né il tempo di seguire un praticante né i soldi per pagarlo». E il paradosso è che «ne hanno comunque bisogno, perché molti adempimenti sono affidati ai praticanti»; per cui, come fa notare in una lettera a Linkiesta l’avvocato e dottore di ricerca Andrea Bitetto, «riconoscere loro il diritto di essere pagati non sarebbe una concessione buonista, ma un interesse della professione», in quanto ciascun professionista «sarebbe tenuto a operare una scelta oculata, perché sarebbe per lui un investimento. E avrebbero maggiori possibilità i candidati con maggiori qualità». Se si imponesse un obbligo di legge in questo senso, tuttavia, «ci sarebbe il rischio concreto di creare la fila davanti ai grossi studi – prosegue la Molinaro –, gli unici a poterlo affrontare. Ma certamente sarebbe un messaggio forte».
Anche per gli psicologi la strada è lunga e non pagata, salvo rarissime eccezioni: un anno di tirocinio post lauream e almeno cento ore all’anno durante i quattro della scuola di specializzazione. Qui la situazione è ancora più complessa. «Molto spesso il tirocinio avviene all’interno di strutture pubbliche – spiega Cristina Buonaugurio, giovane psicologa – come Asl e ospedali, che non avrebbero nemmeno le risorse per pagare il tirocinante». E se negli studi privati girano più soldi, «difficilmente il libero professionista si assume quest’onere: l’aspirante psicologo non lo può affiancare nel suo lavoro, non avendo ottenuto l’abilitazione». Prevedere l’obbligo di retribuzione significherebbe dunque mettere sul piatto anche i fondi per farlo: poco realistico, in tempi di magra come questi.
Ben venga, dunque, una qualche forma di intervento sulla questione del lavoro gratuito: ma credere che questa si esaurisca con gli stage, o con un semplice obbligo legislativo di retribuzione, sarebbe – a quanto pare – quantomeno semplicistico.