Non solo macchine
In questi giorni si sente spesso parlare di “produttività”. «L’Italia – si dice – soffre un deficit di produttività, occorre, dunque, assolutamente porre rimedio a questa lacuna». Il governo stesso invita a più riprese le parti sociali a dialogare per trovare delle soluzioni condivise. Quale è la ricetta che si sente spesse volte echeggiare? «Occorre lavorare di più».
Negli anni Venti furono realizzati negli Stati Uniti degli studi alla ricerca di una correlazione diretta tra le condizioni fisiche del lavoro e la produttività. Cosa era successo? Perché la necessità di tali ricerche? Da una parte le necessità belliche avevano richiesto una produttività sempre maggiore ed a tale domanda si era risposto con incremento delle ore di lavoro, dall’altra i principi organizzativi tayloristi (catene di montaggio, isolamento dei lavoratori e rigidi metodi di controllo) inaspriti nella loro realizzazione concreta a danno degli operai, rendevano il luogo di lavoro tutt’altro che confortevole.
L’equazione appariva chiara e forse obbligata a quel tempo: «maggiore numero di ore di lavoro, maggiore produzione». La realtà diceva però il contrario, ossia il maggior numero di ore lavorate portava, anche a causa di maggiori infortuni sul lavoro, ad una sostanziale minore produttività.
Fu così che istituzioni pubbliche ed imprese private lanciarono programmi di ricerca volti a trovare nuove soluzioni. La nuova equazione fu: «Se miglioriamo le condizioni fisiche in cui si lavora (illuminazione ecc.) senz’altro ci sarà un incremento della produttività». Anche qui i ricercatori dovettero ammettere il fallimento della loro ipotesi di partenza. Gli studi dimostrarono che non vi era nessuna correlazione diretta tra miglioramento delle condizioni di lavoro e produttività.
Cosa faceva migliorare la produttività? Erano le relazioni. Sia quelle tra lavoratori, che tra lavoratori e impresa. La scoperta fu così importante che segnò una svolta negli studi di management, e la scuola delle «relazioni umane nell’industria» tanto influì ed influisce ancora negli studi del comportamento organizzativo. Eppure molte imprese continuarono con i miopi metodi tradizionali.
Ben presto ci fu un’altra guerra e, dopo il boom economico della ricostruzione, si sono succeduti gli illusori fasti del «doping da debito», pubblico o privato che fosse, e così via sino ad arrivare all’attuale crisi che, con tutta evidenza, non è solo finanziaria ed economica, ma anche figlia di una più profonda crisi culturale ed etica.
Il rischio di una semplificazione che non fa capire
Quale il rischio che ci troviamo ad affrontare? A mio avviso è duplice. Da una parte quello della semplificazione: si pensa che ci sia una correlazione diretta e deterministica tra la variabile «aumento delle ore di lavoro» e «produttività»; dall’altro si dimenticano altre variabili sia di contesto locale che di sistema paese. Basti pensare alla lentezza della giustizia nelle cause civili, al peso ancora troppo elevato della burocrazia, alla mancanza di trasparenza ed alla correlate pratiche della corruttela e della concussione, all’inadeguatezza delle risorse destinate alla formazione (dalla scuola all’Università), alla ricerca applicata, e potremmo continuare nell’elenco.
Ciò su cui si deve puntare per migliorare la produttività delle nostre imprese non è quindi un indiscriminato incremento delle ore di lavoro e neanche esclusivamente lasciare libertà totale di realizzare accordi nelle singole imprese. La questione non è, a mio avviso, soltanto quantitativa ma piuttosto qualitativa: quali sono le «condizioni di lavoro» dal punto di vista delle relazioni nelle nostre imprese? Imprenditori e lavoratori sono uniti nel raggiungere obiettivi condivisi? Sentono e sperimentano che stanno giocando la partita nella stessa squadra alla ricerca del vantaggio competitivo dell’impresa e quindi del successo? Io credo che su questo aspetto occorra discutere, superando la logica della competizione interna, della lotta tra categorie, classi, corporazioni.
Il patto sulla missione dell’impresa
Per ritrovare quell’unità di intenti che coniugata alla professionalità ed alla competenza fa di ogni impresa un’impresa speciale, che merita di essere preferita alle altre, occorre un nuovo «Patto sulla missione dell’impresa». Missione che non può esser fatta coincidere solo con il profitto da distribuire agli azionisti, ma anche con la creazione, la tutela e la valorizzazione del lavoro, con il rispetto dell’ambiente, con il conseguimento di un valore non solo economico ma anche sociale.
Su questo punto credo che tutti, piccoli imprenditori e industriali, manager, lavoratori, e anche noi semplici clienti, dovremmo fare un profondo esame di coscienza. Come si effettuano le scelte d’acquisto? Come si svolge il proprio lavoro, con quale senso di appartenenza e di responsabilità? Come si considera l’impresa ed i lavoratori, proprietà da sfruttare o patrimonio da custodire e valorizzare insieme per il bene comune?
Le imprese di successo lo dicono con chiarezza: il vantaggio competitivo si consegue laddove si realizza un vero orientamento al cliente (con creatività, qualità del prodotto e professionalità), si investe in autonomia ed imprenditorialità (qualità dei processi), si realizza il coinvolgimento appropriato, maturo e responsabile del personale (qualità delle relazioni e flusso della conoscenza).
Su questo le parti sociali dovrebbero dialogare, non da posizioni contrapposte, ma come partner di una medesima squadra, altrimenti la partita sarà persa, vane saranno le lezioni della storia.