Non solo arrampicata
A Genova, una palestra che diventa luogo di arricchimento umano oltre che sportivo.
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«Scusa, sai dove si trova la sala di arrampicata?» «Devi percorrere il campo di atletica sul lato tribune, in fondo alla pista trovi l’entrata. È sotto le gradinate». Domanda e risposta mi conducono nel posto giusto. Chi non ha mai visto una sala dove si arrampica, quando ne vede una rimane colpito: lo sguardo di solito rimbalza tra il fascino, lo stupore e lo sconcerto. L’interrogativo di fronte a tutti quegli appigli colorati è: come si fa ad arrampicarsi a testa in giù? In effetti sembra più un fondale marino che una metafora della montagna, ma in fondo gli arrampicatori usano l’aria come i sub l’acqua. Per i frequentatori più assidui e motivati ci sono anche travi per l’allenamento, attrezzi per la muscolazione e un’area "salotto" con numerose riviste di arrampicata a disposizione. Con stupore vi troviamo pure Città Nuova.
Siamo nel Centro Polisportivo della Sciorba nel quartiere genovese di Molassana. Un polo formato da un complesso di piscine e un centro polisportivo di nuova e modernissima concezione, che consente alla città di ospitare manifestazioni ad avvenimenti agonistici di rilievo internazionale, ma anche di rispondere ai bisogni della popolazione e al degrado di alcune aree del quartiere. Paolo Granone ci aspetta: è lui a gestire questa sala di arrampicata, insieme a Domenico Spatari.
Kadoinkatena
Paolo e Domenico hanno fondato l’associazione Kadoinkatena. Nome curioso perché, chiarisce Paolo, «vuol dare il senso di avercela quasi fatta, ma di essere caduti un attimo prima dell’arrivo». È la filosofia degli istruttori, che cercano di trasmetterla a chi frequenta la palestra. «Qui non vogliamo creare super eroi – spiega Paolo – ma uomini che arrampicando si confrontano con i propri limiti, imparano ad accettarli, a conoscere meglio se stessi e a vincere le difficoltà. Non vogliamo dare un livello assoluto, ma un livello personale». Paolo è istruttore federale e giovanile, Domenico oltre che istruttore è tracciatore nazionale. «Fin da bambino – racconta Paolo – non sono mai stato con i piedi per terra, ma in cima ad un albero, su una trave di un tetto divelto. Poi per caso, la scoperta della roccia a metà degli anni ottanta». Paolo è un arrampicatore poliedrico: scala le vie dolomitiche più classiche, i difficili monotiri finalesi, e si cimenta con i pochi movimenti dei boulder più complessi di Varazze. Per lui arrampicare è come dipingere per un pittore: «L’alpinismo è come una tela: le pennellate viste da vicino sembrano grezze, poco definite. Ma se osservi il dipinto nel suo insieme vedi il capolavoro. A Finale ci vuole la tavolozza, perché la tecnica è quella della pittura ad olio, mentre boulder è come un acquarello o una miniatura: più ridotto, nel quale si cerca la perfezione del singolo tratto, del singolo movimento».
Chi frequenta queste pareti è parte di una cordata in cui tutti sono tutti amici: «C’è tra noi una grande solidarietà e libertà di rapporto – racconta Tommaso, che si sta allenando –. L’arrampicata mette in luce il meglio di ciascuno, perché ci spoglia dei ruoli, delle differenze. Mi rapporto con l’altro in modo diretto, e insieme ci aiutiamo a risolvere un passaggio». Interviene Paolo per aggiungere che «portare le persone a riuscire a gestire il proprio corpo, a rispettare la natura, a interagire in tutti i sensi con l’ambiente non può che dare maturità alla persona».
Quel lavoro sottovoce
Dare spazio a persone con difficoltà è uno degli scopi che Paolo e Domenico si sono prefissati. Come quei due gemelli di sedici anni con un sacco di problemi che, appiglio dopo appiglio, hanno imparato a scoprire la loro forza, a trovare fiducia in sé stessi, a rapportarsi con gli altri. Prima a scuola non ci volevano più andare, tanto che avevano interrotto gli studi: ora sono iscritti all’università.
Su suggerimento dell’ospedale pediatrico, una famiglia porta regolarmente ad arrampicare un bimbo autistico di sette anni. Inizia a scoprire le prese sulla parete, a gestire il proprio movimento, a salire su percorsi sempre meno facili. Comincia a scrivere a disegnare. Ora ha fiducia in se stesso, vive sereno, ha imparato a rapportarsi con le persone che gli stanno attorno. I medici e la famiglia sono entusiasti per questo miglioramento avvenuto lentamente, ma insperato. «Questo che facciamo con i diversamente abili è un lavoro sottovoce, ma stupendo. È l’aspetto più bello della nostra attività: non vogliamo niente in cambio se non che la persona acquisti autonomia e indipendenza» conclude Paolo. Qui sotto le gradinate della tribuna del campo di atletica si vivono anche esperienze di questo taglio. E sono cose notevoli. Davvero la palestra è un luogo di ricchezza umana a trecentosessanta gradi.