Non si uccide in nome di Dio
Piazza san Babila è il cuore dello shopping milanese. Pacchetti e buste viaggiano nelle mani dei passanti che fanno spola da un negozio all’altro in un tiepido pomeriggio che incoraggia incontri e compere. Sguardi distratti e frettolosi si fermano per qualche momento sul gruppo di sudanesi chinati in preghiera all’angolo dei portici, mentre cartelli con la scritta ”Not in my name” (Non nel mio nome) cominciano a popolare la piazza assieme a striscioni e manifesti dove si legge a più riprese “Il terrorismo non ha religione”, “Keep calm, sono un musulmano e non un terrorista”, “L’Italia sono anch’io”. I musulmani di 90 associazioni del nord Italia si sono dati appuntamento qui, con famiglie, bambini, tantissime donne e ragazze che accompagnano i cartelli alle parole di denuncia di chi vuole associare la loro fede alla violenza.
In questa piazza ci sono tutti i colori dell’islam d’Italia: somali, eritrei, marocchini, turchi, siriani, tunisini ed egiziani, ma anche iracheni e pachistani. Sono qui per dissociarsi con decisione dagli attentati che hanno insanguinato le strade di Parigi, ma anche quelle del Libano e della Siria perché “qui siamo tutti vittime”, grida con forza un giovane palestinese. “La nostra vita dopo Parigi è cambiata, come cambia sempre dopo ogni attentato. Salgo in pullman e la gente mi guarda e si guarda intimorita, ma io non sono una kamikaze. La mia bambina tornata da scuola mi ha chiesto cosa vuol dire terrorista, perché i compagni hanno cominciato ad affibbiarle questo nome”. Karima dondola il piccolo in carrozzina mentre confida il suo disagio. Morad ha 33 anni, è tecnico delle auto e uno spiccato accento brianzolo: “ Temo la discriminazione per i miei nipotini, temo l’odio e il pregiudizio malsano diffusi dalla cattiva informazione o dai social o da partiti che cercano reddito politico dal sangue e dalla paura”. Adelisa è un insegnate in pensione ed è tra i pochi milanesi scesi in piazza per manifestare la sua vicinanza alle comunità islamiche “contro tanti episodi di razzismo ingiusti perché non sono tutti terroristi, sono anche loro vittime. E noi italiani siamo ignoranti perché non leggiamo, non ci informiamo e crediamo ai discorsi senza sostanza e verità della Lega”.
Il palco improvvisato in pochi secondi da alcuni abili manovali tunisini dà voce ai rappresentanti ufficiali delle 90 associazioni presenti e che ribadiscono che “il terrorismo non ha religione”, e “il nome di Dio non può essere strumentalizzato”. “Ora si smetterà di dire che non abbiamo fatto abbastanza – grida con foga Davide Piccardo, coordinatore delle Associazioni Islamiche di Milano -. Siamo scesi in piazza a Roma, Bologna, Genova per ribadire che non si uccide nel nome di Dio e che dietro le bombe e gli attentati c’è profitto e interessi economici”. In piazza non sono in pochi a commentare le responsabilità di Qatar, Arabia Saudita e Paesi del Golfo nel finanziare il terrorismo e qualche milanese invita gli stessi musulmani a prendere in mano le sorti delle loro terre e a non lasciarle in mano alle dittature. E intanto si levano alti i cori che ribadiscono il “No ai seminatori di violenza”, “no al terrorismo” e “sì alla pace e alla giustizia sociale”.
La piazza romana è stata bagnata da una pioggia insistente che non ha fatto demordere gli organizzatori e il presidente dell’Ucoi, Izzedin Elzir che ha ascoltato e raccolto i messaggi di vicinanza e di condanna del terrorismo fatti arrivare dal presidente della Repubblica, dai presidenti di Camera e Senato e da vari esponenti del mondo politico. La folla non è numerosa, come si sperava e i romani hanno disertato in parte piazza Santi Apostoli, dove invece non è voluta mancare Therese, francese. “Ho voluto esserci anch’io perché il terrorismo non ha ferito solo il mio Paese, ha ferito tutti gli uomini. In Francia continuiamo a domandarci come sia stato possibile che ragazzi nati in Francia, educati in scuole francesi, di fatto non si siano mai integrati e anzi hanno scelto di colpire altri loro concittadini. Sono in tanti a domandarsi se il nostro modello culturale non richieda un ripensamento e se una laicità portata all’eccesso non debba tornare a contemplare anche valori spirituali”. Le due piazze dialogano a distanza e offrono una foto inedita del nostro Paese, dove chi prende la parola, sotto un velo o dietro una barba ha un perfetto accento locale, è magari nato qui, è un italiano che non accetta di essere confinato in un ghetto, che conosce il valore della convivenza pacifica e che teme per il futuro soprattutto dopo i proclami di alcuni politici che pur di guadagnare voti non esitano a lanciare messaggi di separazione, di odio e persino a proporre leggi antimoschee, quando invece sono questi i luoghi che possono e devono formare alla convivenza, come chiedono a gran voce i vari rappresentanti delle associazioni. A Milano le chiedono con forza, a Roma proprio la moschea è stata oggetto di visite e di incontri di condivisione tra cristiani e musulmani: “Una lezione di fratellanza e solidarietà che ha commosso l’intera comunità” ha sottolineato Mohamed, perché i ponti non basta gettarli, ci vuole il coraggio di percorrerli interamente senza cedere alla paura e al pregiudizio.