Non morirò
Dalle semplici, essenziali parole di Aletta Salizzoni tra le prime compagne di Chiara e protagonista della diffusione dello spirito dell'unità in Medio Oriente emergono tratti della sua vita accanto a lei.
Puoi accennare al periodo in cui hai assistito Chiara durante una malattia che si temeva mortale?
«Nel 1954 noi focolarini eravamo pochi, presenti solo in Italia. Eravamo allora tutti giovani, lanciati a portare questo “ideale dell’unità”, senza misurare le nostre forze, senza badare assolutamente a nulla, né alle notti in treno né ai pasti saltati. Chiara, in questa fase così travolgente, era come la prua della nave che avanza e che regge a tutti gli urti delle onde.
«Queste circostanze, assieme a prove assai dolorose che Dio permette alle persone chiamate ad un particolare compito, fecero sì che lei passasse un periodo di deperimento e di prostrazione tali da pensare che la morte fosse vicina. Chiara ripeteva con serenità un desiderio: “Vado da Chi conosco”, pensando di andare da Gesù. Passavo le notti accanto a lei. In camera lasciavo acceso un piccolo lume.
«Una notte in cui questo dolore della perdita di Chiara mi sembrava impossibile da accettare, mi rivolsi a Gesù: “Tu ci dai Chiara; ma lei non ha un’altra Chiara, ha Dio solo. Se voglio vivere quest’ideale devo fare come lei, avere solo Gesù abbandonato”. E con uno sforzo immenso, riuscii a dire di sì.
«A quel punto, sentii come se qualcuno mi suggerisse: “Perché non mi chiedi la grazia?”. Corsi fuori. In corridoio c’era Natalia e le ho detto: “Se noi preghiamo, Chiara guarisce”. Natalia mi guardò, come per dire: “Certo!”. Pregai tutta la notte. Ripescai tutte le preghiere della mia infanzia, tutte quelle che conoscevo. Era il 25 gennaio 1954.
«La mattina, dissi a Chiara: “Sono sicura che tu non morirai, perché la Madonna non lo vuole”. Lei mi guardò con un bel sorriso, ma non aggiunse nulla. Dopo aver ricevuto la Comunione, come tutte le mattine, chiamò noi focolarine che eravamo in casa e ci confidò: “Devo dirvi una cosa: io rimango”.
«Vergò poi di suo pugno una lettera per tutti i focolarini, iniziando con una frase della liturgia, dal Salmo 118, che si viveva in quei giorni: “Eccomi a voi. ‘Non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore’. Mi sembra di essere ritornata e sento che il ritorno ha un solo scopo: vivere per amarvi. Per questo Gesù mi vuole ancora quaggiù. Ma sapeste cosa significa! Ai confini dell’Al di là si ‘sente’ che solo l’Amore conta: l’Infinito Amore. Ma vi dirò…”».
Chiara ti ha affidato l’aspetto “Vita fisica e natura”. Come è iniziato?
«Un giorno, mentre il ritmo della vita incalzava, mi disse: “Sono in pensiero per i focolarini. Come mangiano? Quanto dormono? Se si ammalano, chi li cura?”. Quindi mi mandò in tutte le nostre comunità – allora erano cinque, tra maschili e femminili – raccomandandomi di andare a vedere come stavano.
«Mi misi subito in viaggio. Ero, ricordo, sul treno per Milano. “Che cosa vado a dire? Questa volta – pensavo – non porto una bella pagina ricca di sapienza…”. Ma poi, subito, la luce: “Vado ad amare, vado solo a portare questo amore di madre, concreto e umano, di Chiara”. Così dissi tra l’altro a tutti che, per noi, fare apostolato o curare la nostra salute erano ugualmente volontà di Dio. Era una cosa così lontana dalla nostra mentalità! Sembrava di pensare a noi stessi. Cominciò così questo aspetto».
Poi, nel 1967, si aprì una nuova fase. Chiara ti mandò lontano, addirittura in Turchia. Cosa era successo?
«Il 13 giugno 1967 era avvenuto il primo storico incontro tra Chiara e Athenagoras I, patriarca ecumenico di Costantinopoli. In quel primo contatto Chiara, dietro sua richiesta, aveva raccontato qualcosa delle proprie aspirazioni: lavorare per l’unità dei cristiani e, possibilmente, ad una più grande unità fra i popoli. Il patriarca, sentendo una consonanza straordinaria tra quello che diceva Chiara e quello che pensava lui, disse: “Sei mia figlia! Tu hai due padri. Uno grande, a Roma: Paolo II (vedeva, infatti, nel papa di allora, Paolo VI, come un secondo san Paolo) e uno, anziano, qui”.
«Poi le chiese che si aprisse un focolare a Istanbul, per condividere la sua ansia di unità con la Chiesa di Roma. Chiara pensò di mandare me “così – mi aveva detto –, quando verrò sul Bosforo per incontrarmi col patriarca, troverò un pied-à-terre…”.
«Ogni domenica – io con le due focolarine che presto mi raggiunsero – eravamo a pranzo al Fanar, ospiti di Athenagoras “sotto lo stesso tetto”, ci diceva lui, invitandoci paternamente, anche se il protocollo non gli consentiva di sedersi alla nostra stessa tavola. Dopo il pranzo, ci accomodavamo con lui in una sala, con altri invitati, metropoliti, archimandriti che rappresentavano la Chiesa ortodossa in varie parti del mondo, e sempre la conversazione cadeva sui focolarini».
Sei stata presente ad altri incontri tra il patriarca e Chiara?
«Sì, ad altri otto incontri, dopo quello del 13 giugno 1967. Ho assistito a un momento importante e storico per l’ecumenismo: due grandi carismi per l’unità si incontravano. È stato Athenagoras che ci ha svelato la bellezza della Chiesa ortodossa. Da lui abbiamo capito come nell’Oriente venga sottolineata la vita ed esaltato l’amore cristiano».