Quelli che non lasciano soli i poveri
Ne conosco personalmente alcuni in giro per il mondo, in Italia, in Thailandia, in Brasile, qui in Libano dove vivo. Non sono missionari – almeno non nel senso tradizionale –, ma nella testa (e nel cuore) hanno un solo obiettivo: essere vicini a chi ha meno di loro. Non sono ricchi, tutt’altro, non danno lo zero virgola qualcosa delle loro ricchezze, è gente normale, classe media o medio bassa. Talvolta con motivazioni religiose, ma non sempre, hanno deciso di spendere parte delle loro energie, spesso gran parte, per fare in modo che, per sentimenti di giustizia e compassione, il povero sia un po’ meno povero. Non quelli anonimi e lontani assistito da una qualche associazione caritativa, ma quelli vicini, quelli della porta accanto o del marciapiede sotto casa. Uno di questi era il collega Silvano Gianti, che ci ha lasciati qualche giorno addietro.
Qui dove vivo, in Libano, ho conosciuto un 56enne di nome Akram Nehme, due figli, una moglie premurosa, un passato nella guerra, come tanti da queste parti, un presente da commerciante, ha un delizioso negozio di oggettistica, né antiquariato né mercato delle pulci, un antro d’Ali Babà. Nella crisi profonda dell’economia libanese – già sei mesi prima del coronavirus, la rivoluzione era scoppiata il 17 ottobre, contro quel mix di corruzione, malgoverno e incompetenza che avvolge da decenni la politica del Paese dei cedri – ha conosciuto una perdita di cifra d’affari dell’80%. Che fare? Tenere aperto il negozio e sprofondare in una depressione profonda? No, grazie. Contemporaneamente si era accorto che nel quartiere di Achrafieh, quello storico dei cristiani beirutini, un sempre maggior numero di famiglie del ceto medio, avendo spesso perso il lavoro, non avendo pensione e non avendo familiari in grado di sostenerli, avevano addirittura problemi a mangiare, a pagare il gas o l’acqua. Che fare? Ha cominciato a darsi da fare per raggranellare cibo e prodotti d’igiene di base, che confezionava in grandi cartoni che, una volta al mese, recapitava a domicilio, dopo aver registrato la loro identità e la loro situazione per l’Associazione Achrafieh 2020 da lui fondata con alcuni amici. A chi chiedeva i soldi Akram? Agli amici in primi, agli emigrati libanesi, ai ricchi del quartiere, a chi passa nel suo negozio. Erano 50 le famiglie che aiutava prima del coronavirus.
La pandemia ha sprofondato nella disperazione centinaia e centinaia di altre famiglie rimaste senza mezzi per vivere. Così Akram ha moltiplicato i suoi sforzi, ha motivato decine di amici e conoscenti che, senza occupazioni nella giornata per via della reclusione imposta dal governo, si è messa a collaborare con lui. Ha lanciato messaggi continui sui social, ha bussato a cento porte. E oggi aiuta con le sue casse di cibo e prodotti d’igiene più di 500 famiglie, con un budget di alcune decine di migliaia di dollari alla settimana. Nella sua caverna di Ali Babà, ora circolano merci e persone – con un minimo di “distanziazione sociale” – tutti i santi giorni. La voce si è sparsa, la gente nel bisogno viene ed è accolta con dignità: «Nessuno parte senza qualcosa in mano», dice Akram. Con dignità, appunto: «Quando posso, cerco di coinvolgerli in qualche lavoretto per preparare le casse, in modo che abbiano l’impressione di guadagnarsi da vivere». Chiede soprattutto ai ricchi: «Con il blocco dei conti bancari e con il sicuro tagli dei loro soldi, hanno tutto l’interesse ad aiutarmi con assegni che io subito faccio circolare», e questo perché il dollaro è salito da 1500 lire a 3200 in pochi mesi…
Akram fa leva sulla proverbiale generosità dei libanesi, ha trasformato la sua vita declinante e quella di tanti amici in una donazione. Ieri, tra casse di spaghetti, riso e tonno, mi ha detto: «Ci ho messo 56 anni per capire che il racconto evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci non è una favola, ma è pura verità. Ho appena ricevuto 100 confezioni di pane e 100 scatole di tonno». Un tipo così piacerebbe a papa Francesco e al Nazareno.