Non ho mai smesso di cercare…
Oggi Tecla compie novant’anni e, se la voce è più fievole, la lucidità, la cordialità e l’arguzia sono quelle di sempre. Il segreto? «L’acqua della salute!», scherza evocando lo slogan di una delle tante acque della pubblicità. Ma forse il segreto è nel costante entusiasmo per tutto ciò che fa. «Non ho mai avuto tempo per annoiarmi», mi dice.
Non faccio nessuna fatica a crederle, nel vedere come proprio non riesca a starsene con le mani in mano. Mani tenaci, che per anni hanno modellato la creta, e nello stesso tempo leggere, capaci, con poche sicure mosse, di imprimere un tocco di armonia all’abitazione che condivide con una comunità di focolarine. Perché – e ci tiene a precisarlo – Tecla oggi ha presente particolarmente altri due anniversari: il cinquantennio della sua donazione a Dio e quello del Centro Ave, voluto da Chiara Lubich e iniziato dalla scultrice Ave Cerquetti, da lei e dalla pittrice Marika Tassi.
Tecla è originaria di San Potito, un centro montano sull’altopiano delle Rocche, in Abruzzo. «In famiglia – racconta – la musica e le arti figurative erano molto sentite e vissute, così potei frequentare a Roma il liceo artistico e l’Accademia. Alla fine degli anni Cinquanta, c’era una schiera di artisti che operavano nella capitale, e io visitavo in via Margutta le loro mostre a cielo aperto». Ma non fu in quegli ambienti che la giovane Rantucci trovò ispirazione.
«Finito il percorso formativo, provai a confrontarmi – dice – con i gruppi artistici romani, che vedevo però concentrati sul frammento, sul dettaglio, mentre io avevo bisogno di spazi, di orizzonti ampi. Non potevo scendere a compromessi con me stessa; così decisi di rinunciare non solo a una possibile carriera, ma all’arte stessa… Certamente – ma io non lo sapevo – questa prova mi preparava ad addentrarmi nella nuova esperienza artistica che proprio allora, in quella stessa Roma, mi si sarebbe presentata in modo del tutto inatteso».
E spiega che, in quel periodo, conobbe i Focolari. «Nei quartieri della capitale si tenevano incontri per “mondi”– della scuola, della medicina, dell’arte… – ed io conobbi Ave Cerquetti in una riunione di artisti. Ci affascinò quel “dove due o più” che l’ideale dell’unità proponeva. Ci dicevamo: sicuramente Gesù presente tra artisti – lui, il Maestro – li porterà al Vero nell’arte». La decisione fu di mettersi a lavorare insieme e di accogliere altre artiste desiderose di fare la stessa esperienza. Correva l’anno 1961. «Chiara diede un nome per il nostro atelier: “Centro Ave”. Con questo ci invitava a guardare al silenzio di Maria per aiutarci a cogliere “l’ispirazione” come vita dello Spirito in noi».
Tecla ricorda l’entusiasmo, la gioia di quell’inizio: «Avvertivamo di entrare in un’avventura divina. Non sapevamo quello che Dio ci avrebbe chiesto, ma ci fidavamo di lui».
Nel 1965, l’atelier si trasferiva nella nascente cittadella di Loppiano. «Il Centro Ave poteva sostenere economicamente la scuola internazionale di formazione, ma certamente la pittura e la scultura non potevano dar lavoro. Chiara pensò alla ceramica, affidandola a me. Io non sapevo niente di questa tecnica, non mi aveva mai attirato. Ma mi buttai subito a compiere quanto mi veniva proposto. M’impegnai nella ceramica per quindici anni, scoprendone tutta la bellezza e poi, per delle circostanze, tornai a lavorare con Ave e vi rimasi, anche perché, ormai, il settore della ceramica era molto ben avviato».
Tecla si trovò, ancora una volta, a sperimentare tecniche e materiali nuovi: il vetro, il ferro, il cemento. L’équipe del Centro Ave, che si era consolidata nel tempo con l’accoglienza di altre giovani artiste, si era andata specializzando nel settore degli elementi liturgici – altari, vetrate, tabernacoli – e riceveva ordinativi dall’Italia e dall’estero. «Le difficoltà non sono mai mancate, ma proprio in quei momenti abbiamo sperimentato la forza dell’ideale che ci muoveva e che, per l’amore reciproco, non ci faceva misurare nell’aiutare chi era in difficoltà: eravamo veramente pronte a dare la vita l’una per l’altra. Ricordo quella volta che Ave mi aiutò, lavorando con me per 45 ore di seguito per una consegna urgente, spostando tutto; o quando io rinunciai alla mia vacanza per aiutare lei a fare una grande statua, quella di Gesù Maestro».
Fu proprio un “atto d’amore” ad aiutarle a fare il salto: dalla progettazione di singoli elementi a quella di un intero edificio sacro, sia della parte architettonica che di quella decorativa. «Due sacerdoti di Cuneo – ricorda – ci avevano chiesto il progetto per la loro chiesa nel nuovo quartiere di San Paolo a cui essa era dedicata. Rispondemmo che non potevamo accettare perché sino ad allora avevamo lavorato solo per ristrutturazioni e ambientazioni. Ma di fronte alla loro insistenza e fiducia, finimmo per dire di sì, prendendoci però del tempo almeno per documentarci. Quasi subito però Ave ed io dovemmo assentarci per un mese per gravi motivi di famiglia. Appena tornate, una telefonata dei sacerdoti ci comunicò che la presentazione del progetto all’ufficio tecnico del Vaticano era stata anticipata: entro una settimana sarebbe scaduto il termine. Così dovemmo promettere di fare l’impossibile. Attaccato però il ricevitore, ci guardammo sgomente e insieme ci trovammo a chiedere un aiuto a Dio. Con una grande pace dentro. Ave prese allora una penna e un foglio. Ci mettemmo a pensare come avremmo voluto la chiesa per le giovani famiglie di quella comunità parrocchiale che ci avevano descritto. Le idee fiorivano una dietro l’altra, e venne fuori il bozzetto di un progetto di massima.
«Una di noi, architetto, sviluppò piante e prospetti, in tempo per la presentazione del progetto. Ce lo vedemmo però tornare indietro, perché volevano che lo presentassero le progettiste! In Vaticano, vollero che spiegassimo ogni particolare. Quando seppero che venivamo da Loppiano, esclamarono: “Adesso capiamo!”. E approvarono il nostro progetto, in cui notavano una grande originalità e un’armonia di insieme. Quella fu la prima chiesa progettata interamente dal Centro Ave».
Nell’ascoltare Tecla, mi si sono illuminate le parole che Benedetto XVI ha rivolto a un gruppo di artisti nel luglio scorso: «Siate cercatori di verità, testimoni di carità. È dalla sinfonia, dalla perfetta armonia di verità e di carità che emana l’autentica bellezza».