Non facciamo appassire le vocazioni!

Le comunità sono composte di persone tutte diverse che, se ridotte alla conformità, perdono splendore e libertà. Non vanno mai scoraggiati o repressi i percorsi individuali, anche se fuori dagli schemi. Una organizzazione-comunità virtuosa è invece simile ad un bravo artigiano che incoraggia la riscoperta della bellezza. Da Avvenire

Ogni vocazione è un’esperienza di radicale bellezza, è prima di ogni altra cosa un incontro meraviglioso. Chi ha conosciuto questa bellezza continua a bramarla per tutta la vita. È un incontro che accade una sola volta, ma è talmente forte e radicale da cambiarci per sempre. In quel momento la persona fa l’esperienza umana più sublime: capisce chi è veramente, che è qualcosa di bellissimo e grande. Si sente un tabernacolo d’infinito, piccolissimo ma immenso.

 

Per questa ragione, queste vocazioni e queste ‘promesse’ sono irrevocabili. Si può uscire da un convento o smettere di dipingere per il troppo dolore, ma da quella bellezza prima non si esce mai, perché, semplicemente, quella vocazione siamo noi, è la nostra parte più viva e più vera. In quel giorno si ha l’impressione certa che tutto il mondo sia stato creato solo per noi, per me. Alcuni bambini, durante l’infanzia, vivono una esperienza speciale: hanno l’impressione di essere dentro un film, un cartone animato, una commedia, dove i genitori, gli amici, gli insegnanti, le persone che li circondano stanno interpretando un copione, scritto tutto e soltanto per la loro felicità.

 

Quando arriva il giorno della vocazione rivive questa esperienza della fanciullezza: si sente, e si è certi, che tutto ciò che ci circonda è stato creato in dono per noi, per me. Che tutto, dentro e fuori, è un unico, immenso, mirabile spettacolo di bellezza amante, infallibile ed evidente. La qualità di una esistenza e dei suoi frutti dipende totalmente da questo incontro. Sta quasi tutto lì. Queste epifanie di bellezza sono particolarmente forti e pure nelle vocazioni artistiche e religiose, ma è la stessa esperienza che si ripete, in varie forme, anche nelle autentiche vocazioni lavorative e scientifiche, o in quell’incontro decisivo con chi diventerà nostra moglie o nostro marito.

 

È una chiamata a svolgere una missione, un compito, un destino, ad occupare il proprio posto nel mondo. È un uscire di casa verso la terra promessa, per la costruzione di un’arca di salvezza, per la liberazione di schiavi, fosse anche di uno solo. Ma se la vocazione siamo noi, essa cresce con noi, prende i caratteri dei nostri talenti, del nostro lavoro, semplicemente della nostra vita. E quando la vocazione si svolge dentro comunità, decisivo diventa allora il rapporto tra la nostra vocazione, quella degli altri con cui viviamo, e l’istituzione nella quale essa nasce e cresce. Ed è qui che si gioca molto, quasi tutto, della fioritura di una vocazione.

 

Molte appassiscono o si spengono perché ad un certo punto si guasta la dinamica individuo-comunità, per la cattiva gestione della distanza che si viene a creare nel tempo tra lo sviluppo della propria vocazione e quello della comunità. Questa distanza crescente è inevitabile, perché ogni vocazione è unica e irrepetibile, e quindi le sue forme e i suoi tempi di sviluppo non possono mai coincidere con le forme e i modi della comunità, perché quando coincidono si ferma lo sviluppo della persona e della comunità.

 

È negli scarti, negli spacchi, nei non allineamenti dove si genera e rigenera la vita. Il blocco della fioritura della vocazione non dipende allora da questa distanza, che è molto buona, ma dal suo esercizio. Ed è proprio qui che si commettono gli errori più gravi. Quello di gran lunga più comune lo commettono i responsabili della comunità, quando di fronte al disagio e alla difficoltà di gestire l’allontanamento tra le forme e i modi con cui la singola persona vive la propria vocazione e quelli ‘normali’, credono di eliminare disagio e difficoltà semplicemente chiedendo alla persona di uniformarsi ai tempi e ai modi della comunità, perdendo ciò che costituiva la sua nota originale.

 

Si perde così di vista quella che i filosofi medievali chiamavano l’ecceità, cioè quella dimensione della vita per quale una la margherita che sto vedendo ora è questa margherita, e non soltanto una margherita. Che mi fa vedere Giovanna, non soltanto la suora francescana, che pure è. Le persone sono concrete, mai astratte, e la dimensione più concreta di ogni esistenza è proprio la sua vocazione. La prima astrazione sbagliata è quindi la stessa idea di comunità.

 

Si dimentica che le comunità sono fatte di persone tutte diverse, e si calcola una specie di media che diventa un ‘noi’ astrattissimo in rapporto al quale si misurano gli scostamenti e gli errori degli itinerari delle singole persone concrete. Operazione comunissima e pericolosissima, perché in nome di un astratto bene comune si spengono le persone concrete. E magari si riesce anche a costruire persone che coincidono con la media – peccato che nel processo di trasformazione si perda proprio la parte migliore della persona e presto della comunità.

 

La tentazione-errore di dimenticare l’ecceità è molto frequente, perché le comunità hanno nel proprio repertorio gli strumenti per ottenere questa conformazione. Le costituzioni, gli statuti, i regolamenti, le decisioni e le delibere dei consigli direttivi hanno anche lo scopo di conservare nel tempo l’unità delle comunità, e di consentire il governo di un corpo senza che si disperda e sfilacci nelle molte interpretazioni diverse e spesso discordi dei vari membri. Ma i saggi governi sanno soprattutto un’altra cosa: che l’esercizio effettivo di questo potere deve essere molto raro, perché quasi sempre una vocazione ridotta alla conformità finisce per perdere il suo splendore e la sua libertà, la sua bellezza più sublime.

 

Quando, invece, i percorsi individuali, quindi laterali e tangenziali, vengono scoraggiati e repressi, si fa rivivere il mito di Procuste, che amputava le gambe dei suoi ‘ospiti’ che fuoriuscivano dal suo letto e stirava quelle troppo corte. Le comunità-Procuste utilizzano regolamenti, statuti, parole dei fondatori come materiali per costruire un letto a taglia unica, nel quale costringono ad entrare tutti, irrispettosi delle diverse misure vocazionali delle persone. L’aspetto cruciale che rende molto comune e per certi versi quasi inevitabile questo processo di riduzionismo, sta nel ruolo giocato dalla singola persona.

 

È chi ha ricevuto una vocazione che inizia a rattrappire la propria anima per farla rientrare nella misura unica del ‘letto medio’ comunitario, e poi a compiere vere e proprie auto-amputazioni volontarie della differenza tra la propria misura vocazionale e quella chiesta dalla comunità. La saggezza più preziosa, e molto rara, dei responsabili di comunità vocazionali sta allora nell’impedire questi processi auto-distruttivi, anche quando provengono dalle stesse persone, che, soprattutto nei primi anni, traggono un certo benessere dall’adeguamento alla cultura media.

 

Si è veramente responsabili verso una vocazione, soprattutto quando è ancora giovane, se la si aiuta a non perdere la propria eccedenza, a coltivare e custodire la propria unicità; perché quando non si incoraggia e magari si combatte l’ecceità vocazionale, le vocazioni non mantengono nel tempo la loro promessa di bellezza, e vanno a male. Le albe non diventano mezzodì, le primavere che non conoscono la stagione dei frutti maturi.

 

Una organizzazione-comunità virtuosa è invece simile ad un bravo artigiano che costruisce il ‘letto’ in modo da farlo conformare alla persona reale: sono le persone con le loro diversità vocazionali a rendere feconde le comunità. Difficili da gestire come la vita, come i figli. Spendide come la vita, come i figli. Soltanto le persone, nel loro mistero, contengono il principio attivo dell’evoluzione delle comunità e del compimento del loro carisma. La sindrome di Procuste finisce allora per amputare il futuro di tutti. La sorte di tali tristi comunità è infatti iscritta nell’epilogo dello stesso mito: Procuste viene catturato e ucciso con il medesimo supplizio con cui aveva afflitto le sue vittime.

 

Altre volte una vocazione si blocca per un rapporto sbagliato con il passato, con la prima bellezza. Lo scopo di quel primo incontro era la rivelazione del nostro posto al mondo (e come dice la parola, ogni ri-velazione è assieme uno svelare e un nuovo ricoprire). La fatica di chi custodisce in sé una vocazione sta nella capacità di resistere alla nostalgia nell’assenza della prima bellezza, di riuscire a non voltarsi indietro in cerca dell’origine. Nelle notti si sogna quell’antico incontro, si torna molte volte nel luogo dove è avvenuto, si guardano le foto e si leggono le lettere e i diari dei primi tempi. Ma non accade nulla, il miracolo non torna, perché non può tornare. Finché un giorno iniziamo dolcemente a comprendere che quell’antica bellezza non sta dietro di noi, ma si trova semplicemente davanti e attorno a noi. Non è il tornare di Ulisse, è l’andare di Abramo.

 

Qualche volta questa nuova, affascinante e liberissima fase della vita inizia con la scoperta della bellezza della natura. Avevamo vissuto per cinquant’anni in campagna, e un giorno scopriamo i fiori. Li guardiamo e finalmente li vediamo dentro. Vi rivediamo la stessa bellezza che ci aveva incantato e accesi. In un bocciolo di cardo scorgiamo tutta la bellezza dell’universo, e riconosciamo quella prima bellezza, che non era mai scomparsa dalla nostra terra.

 

C’è, infine, una grande speranza: questo itinerario della bellezza nuova può accadere anche dentro comunità-Procuste, anche quando abbiamo perso molta eccedenza. Purché ne sia rimasta un poco, magari solo il ricordo della prima interezza. E, come le piante, da quel piccolo resto ancora vivo possiamo ricominciare a fiorire.

 

(Da Avvenire)

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