Non è nel calendario, ma. . .
Isanti, affermava George Orwell in uno scritto su Gandhi, dovrebbero essere giudicati tutti colpevoli, fino a prova contraria. Gioacchino Turco, focolarino, non è sugli altari, e non figura nel calendario. Ma quando mi è stato chiesto di scrivere la sua storia, mi sono munito di un sano scetticismo professionale. Avevo sentito dire di lui cose straordinarie: in soli 36 anni aveva raggiunto vette spirituali altissime. Possibile? Oppure qualcuno si è fatto prendere da un abbaglio? Per mesi ho setacciato la sua vita. Ho bussato a molte porte ed interrogato persone che lo avevano conosciuto. Prime fra tutte Chiara Lubich, che più di altri ha colto la fisionomia spirituale di Giò, come lo chiamavano gli amici. Mi sono trovato così immerso e coinvolto in una straordinaria storia d’amore. La vita di Gioacchino è, infatti, la storia dell’incontro e del rapporto intimo con una persona: Gesù. È la vicenda di un cristiano di quest’epoca che, come i discepoli duemila anni fa, ha lasciato le reti e i propri affetti per seguire il Maestro. È un venerdì di settembre del 1994. Nulla suggeriva che quel pomeriggio poteva essere segnato da un destino particolare. Gioacchino era sceso al panificio, aveva dato un’occhiata agli appunti dell’università, telefonato ad un paio di amici, portato un dolce, preparato con le sue mani, alla vicina di casa. Un giorno qualunque, all’apparenza. Ma c’era quell’inquietudine che mordeva la sua anima e che non gli dava pace. Era andato a messa, come tutti i giorni del resto, ma aveva pregato con un’intensità particolare, con la concentrazione di un tuffatore prima di lanciarsi nel vuoto. Gioacchino voleva gettarsi fiducioso nell’abbraccio paterno di Dio, che da anni era il fondamento della sua esistenza. “Ho cercato di dormire questa notte – scriveva -. Ma ogni risveglio era per te. Sai, Gesù, ho un po’ di strizza. Ma sei tu, vero? Cosa posso temere da te, che hai vinto anche la morte?”. Erano i risultati di quella “gastro” a procurargli l’aritmia del sonno. “Non mi piace”, aveva sussurrato il medico, analizzando le sagome grigie che fluttuavano sul piccolo schermo, inviate dall’endoscopio che a fatica viaggiava tra l’esofago e la bocca dello stomaco. “Ho avuto la conferma che la cosa è oggettivamente seria “. Giò aveva così dovuto sottoporsi una seconda volta a quel supplizio. Attendeva ansioso i risultati definitivi. Paolo, l’amico medico, quel pomeriggio si sarebbe presentato a lui alle cinque, come araldo della morte o della vita. Lo ha mitragliato di punti interrogativi, dando così sfogo a quell’ingorgo di quesiti che costringevano la sua mente ed il cuore in apnea. Era una sentenza di morte. “Mi sono sentito il terreno franare sotto i piedi “, confiderà in serata ad Alessandro, un amico di Sestri Levante. La condanna lo aveva investito come una frustata violenta. “Giò, mi dispiace: è un tumore maligno”. Dove? “È un carcinoma avanzato all’esofa- go medio-inferiore”. Silenzio. Rumore di foglie ingiallite dall’autunno, calpestate da passi lenti e pensosi. I rami degli alberi, spogliati dall’autunno, si alzano in preghiera, nudi, verso il cielo. Gioacchino rimugina quanto l’amico medico gli ha comunicato. “Ho bisogno di una boccata d’aria”, aveva detto a Fabrizio, l’amico fraterno che ora, muto come gli alberi, gli passeggia affianco, barcollando anche lui sotto il peso della novità. “Fabrizio, adesso è il momento di crederci veramente a ciò che andiamo dicendo”. Per Gioacchino è l’inizio di un calvario, ma allo stesso tempo anche di una unione con Dio sempre più profonda e totale. Scrive il 6 agosto del 1998: “Che inferno è sapere di aver mancato all’amore infinito di Dio. C’è solo da augurarsi di far meglio adesso. Mi sento, anzi vorrei tanto essere una formica, che almeno loro non offendono, non lacerano il cuore amante e appassionato di Dio, tenera carezza di ogni alba. Che sarà mai incontrarti, Gesù? Immaginarsi: uno che mi ha dato tutto, che si è consumato per me fino a gridare. Eppure nella stupenda e tremenda esperienza della libertà, l’uomo, e quindi adesso io, posso Anzi constato nelle amare lacrime quanto poco ti ho contraccambiato. Tutto sembra un groviglio e non distinguo i mortali dai veniali. Sono sicuro: mi vedo lì, lontano, lontano dal tuo amore ove la disunità regna. Gesù, è vero: anche all’inferno non avrò che una parola: amare solo te, perché è solo così che ho tentato di vivere e perciò mi affido di nuovo alle tue mani piene, colme solo d’amore perché mi salvi e con me tanti, tutti”. Il 16 ottobre per l’ultima volta Gioacchino prende in mano la penna: “Ieri sera, venendo a trovarti nel tabernacolo dove tu mi attendevi, ho avuto chiara un’idea: Giò, stà sempre lieto. Io sono sempre con te”. Gioacchino Turco muore il 5 novembre del 1998, offrendo fino alla fine “tutto per l’unità”, “perché l’amore reciproco fosse tra tutti radicale a tal punto da meritarla stabile”. Ad un fisico che la malattia spoglia negli anni di forze e facoltà, corrisponde un’anima che in modo inversamente proporzionale si arricchisce di doni spirituali di rara bellezza. La morte non sarà che il vertice di questa storia d’amore, la consumazione integrale di questo rapporto sponsale con Gesù. Una luce accecante Chiara Lubich è senza dubbio la persona che più ha saputo cogliere e condividere l’esperienza spirituale di Gioacchino. Un’esperienza che, a suo avviso, ha avuto a che fare con la “notte dello spirito” di cui parlano i mistici. Riportiamo, in proposito, un passaggio dell’intervista da lei rilasciata per la biografia di questo focolarino. La “notte dello spirito” nell’ascetica e mistica tradizionali è una prova che può durare anche molto a lungo e segue in genere la “notte dei sensi”. Questa è permessa da Dio in particolari persone che camminano con decisione nella via di Dio e ha varie manifestazioni, vari contenuti. Ad esempio malattie diverse, morti o disgrazie di parenti, travagli provocati da tentazioni varie, ecc. Tutto questo, che produce un grande patire, ha come scopo la purificazione della persona nella sua parte sensibile. Attenua i vizi che tutti posseggono, anche se non ne sradica le radici. Perché ciò avvenga è necessaria la “notte dello spirito” che il Signore manda a chi è stato fedele nel superare quella dei sensi. Questa seconda notte si presenta anch’essa in varie maniere.Ad esempio sono messe alla prova le virtù teologali come la fede. Si può sperimentare lo strazio di essere abbandonati da Dio. La speranza e la carità possono apparire semplici utopie di cui disfarsi Ma la particolarità di questa notte sta nel fatto che Dio manda nell’anima di questa persona una luce accecante, una luce celeste, perché comprenda la purezza, la trasparenza, lo splendore di Dio a confronto con ciò che lei è ed è stata: un insieme di miserie, di incorrispondenze, di peccati, di imperfezioni Nell’incontro di queste due realtà si scatena nell’anima come un polverone. Non so come meglio definirlo. Cosicché la persona cade in una grandeconfusione. Non ha più nulla di certo: tutto ciò che ha fatto e fa le sembra macchiato da colpe gravissime. Non distingue i peccati veniali da quelli mortali Si affida, allora, a un confessore che la può confortare, ma solo lì per lì perché, subito dopo essersi aperta con lui, ripiomba nel dubbio atroce di essere lontana da Dio e da lui invisa. Tale situazione può poi caricarsi di altre prove come, ad esempio, quella di continui scrupoli che corrodono l’anima. Ma la prova più acuta e specifica è questa: la persona sotto quell’invasione di luce soprannaturale rivede a brani tutta la propria vita come in un film, dalla tenera età. E si vede coperta da errori, da sbagli che la fanno piangere e rasentare quasi la disperazione. È uno straziante dolore che nell’insieme può paragonarsi senz’altro al purgatorio, se non all’inferno. Ebbene, è una prova di questo genere che ho constatato in Giò. È essa che mi ha fortemente impressionata.