Non due ma tutti
In questi ultimi tempi mi sono state affidate alcune situazioni difficili che hanno colpito alcune famiglie dei nostri allievi e che stiamo portando avanti insieme con le sorelle della comunità.
Quando ci sentiamo con l’acqua alla gola, interviene lui, Gesù, che ci fa conoscere delle persone o fa arrivare degli aiuti materiali. Noi ci chiediamo: “Ma chi è questo che mi ha chiamato, non lo conosco”. Sembra quasi un gioco, una gara, in certi momenti molto faticosa, in cui lui ci va ripetendo: “Ama, impegna tutte le tue forze, al resto ci penso io”.
Nella scuola è un pullulare di vita vissuta con i bambini e le famiglie, con il team insegnanti, con il personale ausiliario. In quest’impegno sono immersa durante tutta la giornata con un unico obiettivo: amare per testimoniare Gesù, per dire a tutti che lui è la mia vita, la mia forza, lui è il mio tutto. Vi racconto un’esperienza in cui quasi “per caso” mi sono trovata coinvolta.
Come madre, più che madre
Una sera di febbraio del 1998, si presentò una famiglia etiope: mamma, papà, tre figli. Ci era stato chiesto di inserire nella nostra scuola i due più grandi, appena arrivati dalla loro terra, per ricongiungersi al resto della famiglia, già nel nostro Paese, e per tentare di curare uno dei gemelli, affetto da una forma di leucemia grave.
Quando li vidi scendere da quel furgone guidato da un volontario, sentii chiara nel cuore una frase: “Non due ma tutti”. E così è stato ed è anche ora. Seguirono tante vicende particolarmente dolorose, prima fra tutte la morte del più piccolo. Ho cercato con l’aiuto della mia comunità e di altre persone (genitori della scuola, volontari, amici, conoscenti) di affiancare 24 ore su 24 tutti i componenti del nucleo familiare, entrando nella loro mentalità, nelle loro tradizioni, nel loro modo di vivere il dolore, pensando a vestirli, sfamarli, curarli ecc.
Passò quasi un anno e un po’ alla volta la famiglia trovò un certo equilibrio: la mamma aveva ripreso il suo lavoro, il padre lo avevano assunto come operaio, i figli frequentavano regolarmente la nostra scuola con risultati soddisfacenti.
Un certo giorno la mamma, rimasta incinta, disse che voleva andare dalla sorella in America per due mesi e che sarebbe tornata per partorire. Sono passati già sei anni e quel giorno deve ancora arrivare. Il bambino è nato, a giugno compirà sei anni, ma non conosce i suoi fratelli, come loro non conoscono lui.
Intanto il padre, una mattina mi telefona, perché voleva parlarmi con urgenza. Arrivò verso sera e mi disse di aver lasciato il lavoro, perché psicologicamente traumatizzato.
I ragazzi avevano sempre avuto bisogno di tutto, ma ora si accentuava la loro sofferenza. Vedendo sempre il padre di malumore, ho cercato di sollecitarli al rispetto per i genitori, nonostante capissi che in loro c’era tanta ribellione.
Il 13 febbraio dello scorso anno ricevo un sms in cui il padre mi dice che era partito per la sua terra. I figli non erano al corrente di nulla, perché la sera precedente aveva detto loro che sarebbe andato a cena da amici. Che fare? Avviso dell’accaduto i servizi sociali, perché due dei tre fratelli erano minori.
Era un compito molto difficile, che mi ha fatto rivolgere più volte a Maria, chiedendole di darmi una mano. Così, giorno dopo giorno, viviamo insieme questa realtà. I bambini erano capaci di accudirsi da soli, di prepararsi da mangiare, lavare, stirare… ma non riuscivano a riempire il vuoto degli affetti e a perdonare gli abbandoni e i rifiuti subiti. Per molti mesi ho atteso che uno dei genitori si facesse vivo, ma tutto era silenzio…
La “clandestinità” dei due più giovani, in quanto minorenni e appoggiati al permesso di soggiorno del padre, mi pesava sempre di più. Le parole di Pietro Leonardi, il mio fondatore, mi risuonavano nel cuore: “Come madre e più che madre”. Trovai la via, lunga, ma sicura.
Si mosse tutta la città: alcuni genitori della scuola si interessarono per trovare persone sicure e fu così che mi incontrai con avvocati splendidi, funzionari della questura molto disponibili, il giudice tutelare, funzionari dell’ULSS che mi accompagnarono fino ad avere per i due minori, in quanto il più grande era già maggiorenne, non solo il permesso di soggiorno, ma tutti i documenti.
Adozioni a distanza
Vorrei dirvi ancora come nel nome di Gesù, insieme con Maria, la mia esperienza si è dilatata a 360°. Nel lontano ’97 mi era stata affidata “una cosetta”. Due viaggi, prima in Brasile e poi in Angola, mi hanno coinvolta e travolta insieme a tante, tantissime persone per amare tanti fratelli anche oltre oceano.
Questa realtà si è allargata come quando lanciavo i sassi nel mio lago e si formavano tanti cerchi sempre più grandi… Così è stato: da quella “cosetta” è nata una onlus, “Progetto fratello mio”, con la quale seguo 22 progetti distribuiti in Brasile, Angola, Costa d’Avorio e Argentina dove, nelle zone più povere, si trovano ad operare le mie consorelle.
In questi progetti, specialmente con le adozioni a distanza di vario tipo, sono coinvolte ormai parecchie centinaia di persone, che nei modi più vari affiancano il nostro servizio. Per la realizzazione di alcuni di questi progetti ho dovuto superare all’inizio il rifiuto delle autorità.
Nello stesso tempo, però, ho accolto il fortissimo desiderio di tantissime persone che in Italia e nei diversi continenti hanno messo a disposizione tutte le energie necessarie per un aiuto concreto. È stata proprio questa unità di intenti che ha fatto decollare tutti questi progetti e ogni anno ne fa nascere uno nuovo.
Devo dire che una grande forza mi è sempre venuta dalla comunione vissuta con le sorelle della mia Famiglia religiosa e con le altre consacrate con le quali periodicamente ci incontriamo, nel Movimento dei Focolari, per confrontarci e per aiutarci, attuando insieme il comandamento di Gesù.
Quando mi chiedo come si sia potuto realizzare tutto questo e come tanti bimbi siano potuti tornare a sorridere e tanta gente a sperare, mi sento rispondere nell’intimo: “Sono stato Io in mezzo a voi” (cf. Mt 18, 20).