Non credevo che ancora esistessero gli angeli!
Ero appena stata alla novena. Mi gongolavo ancora in quella pace della preghiera, protetta come in una bolla, nell’abitacolo della mia auto, dalla febbre prenatalizia che vedevo scorrere fuori dal finestrino: strade intasate, parcheggi selvaggi sopra piste ciclabili, persone cariche di pacchi e borse che faticavano a farsi largo lungo la banchina del marciapiede, clacson.
«Visto che ho tempo – pensavo fra me e me –, ne approfitto per andare a trovare la zia Marisa e farle nascere Gesù Bambino». È infatti tradizione della zia Marisa, che in realtà è un’anziana cugina nubile del babbo, che io vada in tempo di Avvento a deporre il suo Bambinello, antico e di grande valore, in una cestina rialzata, con sotto una stola di lino su cui faccio cadere dei brillantini, unico vezzo del suo presepe a dir poco essenziale. Nel tempo, l’ho integrato con lucine a intermittenza e una candelina, che pongo a lato, ma rimane comunque una cosa povera, che la dice lunga sui gusti della zia.
Insomma, ero arrivata con la macchina fin davanti alla caserma dei Vigili del Fuoco, lì vicino, quando noto, proprio nel mezzo della carreggiata, un fagotto tremante e scalzo, con le mani sulla faccia. Comincio a frenare, e mi accorgo che è una donna, disperata. Grida: «Qualcuno mi aiuti, qualcuno mi aiuti, qualcuno mi aiuti!». Io, lì per lì, insomma, sinceramente, ho pensato fosse qualcuno che faceva finta, e che comunque io non potevo aiutarla, perché dovevo andare dalla zia Marisa. Tuttavia, lei era lì sull’asfalto, avvilita: cosa dovevo fare?
Inchiodo, perché con tutti quei ragionamenti, alla fine le ero arrivata addosso, e la stavo quasi per mettere sotto. Inserisco le quattro frecce, lei gira intorno alla macchina, dalla parte del marciapiede. Io tiro giù il finestrino appena il necessario, sempre diffidente.
«Che ti è successo?», le chiedo cercando di capire se ha davvero bisogno d’aiuto. E lei, una donna sulla quarantina: «Signora, ho litigato con il mio compagno. Lui è scappato di corsa da casa, e ha preso la macchina. Ho paura che gli succeda qualcosa, che faccia qualcosa di brutto. Io ho provato a rincorrerlo, ma non ho fatto in tempo a raggiungerlo. Così, sono rimasta in mezzo alla strada, scalza e chiusa fuori».
Meccanicamente le apro lo sportello. Non so cosa fare o dire, però vedo che è una persona che soffre molto e fuori fa freddo. «Mi dispiace» è l’unica cosa che mi esce dalla bocca, e poi: «Come posso aiutarti? Ho soltanto una bottiglia d’acqua già avviata e nemmeno una caramella».
E rimaniamo così, ferme e in silenzio, mentre lei si calma. Poi, mi rendo conto che le macchine dietro di noi fanno fatica a passare. «Accostiamoci un attimo…». Mentre faccio manovra, provo a indagare, temendo che abbia subito violenza, che sia stata picchiata. «No – mi spiega –, siamo fidanzati da due anni, lui è separato, ma ha vissuto una separazione difficile. Lavoriamo tutti e due, non conviviamo, ma i fine settimana, come questo, spesso li passiamo insieme».
Tra le lacrime, mi racconta che la discussione è nata sull’entità del lavoro di lui, che spesso impedisce ai due di frequentarsi. Una controversia poi degenerata, che aveva portato lui a dire che sarebbe stato meglio troncare tutto. Così, sbattendo la porta, aveva preso le chiavi della macchina, e se ne era andato. Lei l’aveva seguito impulsivamente e senza scarpe.
Non so che faccia ho mentre mi racconta queste cose, forse perplessa. Fatto sta che la spinge a dirmi: «Vieni a vedere, la casa è qui, girato l’angolo». La voce della diffidenza a quel punto alza il volume in automatico, borbottandomi in testa: e ora che fai? Ti fidi ed entri anche in una casa di sconosciuti? Non ti ricordi che c’è la zia Marisa che ti sta aspettando?
La scrollo di dosso, fidandomi di ciò che sento dal cuore: ho di fronte una persona che ha solo bisogno di essere ascoltata e accolta. Così, giriamo l’angolo, suoniamo a un vicino che ci apre il portone. La porta dell’appartamento del compagno è aperta, e dentro c’è il caos: lo zaino di lei buttato accanto alla porta, abiti sparsi ovunque. Dovevano essersi tirati di tutto.
«Forse, avete solo bisogno di farvi aiutare,» azzardo «perché sicuramente lui sta soffrendo, ma soffre anche la vostra coppia». A quel punto, mi guarda con la gratitudine negli occhi e mi dice: «Non credevo che ancora esistessero gli angeli!». A me escono le lacrime, mi fa impressione sentirmi dire una cosa così. In fondo, non ho fatto niente, le sono solo stata vicino.
«Non ci siamo neanche presentate! Io sono Giovanna» le dico ancora commossa. «Donata, sono Donata» mi risponde tendendomi la mano. Mi si accende una luce dentro: «Se ti chiami Donata, sicuramente i tuoi hanno scelto questo nome perché sei stata un dono per loro! E oggi, certamente, lo sei stata per me, hai dato un senso inaspettato e prezioso a questa giornata: la gioia di poterti aiutare e ascoltare».
Poi, ci salutiamo. Mentre esco di casa, l’affido a quel Bambinello che vado “a far nascere” dalla zia Marisa. Non ci siamo più incontrate, ma grazie a Donata ho imparato che, superando quell’istintiva diffidenza che ci tiene separati dagli sconosciuti, da certe condizioni di disagio che a tratti ci spaventano, si possono scoprire tesori inaspettati, che solo l’incontro così umano con un’altra persona può far sperimentare. Come diceva San Paolo, nella Lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli».