Non condividiamo foto intime

60 minorenni emiliane fanno sexting e si mettono nei guai: cosa impariamo da questa storia

60 minorenni, studentesse di diversi licei di Modena e Reggio Emilia, quest’estate, sembra per “combattere la noia”, mettono in piedi un gioco un po’ hot postando e condividendo, su un gruppo WhatsApp creato tra di loro, foto e video che le ritraggono in pose provocanti e anche nude. Un episodio, tra tanti purtroppo, di quel fenomeno chiamato Sexting, l’invio ad altri di proprie foto intime.

Il gioco però ad un certo punto sfugge di mano, qualcuna “tradisce” la fiducia e le immagini, che dovevano restare di dominio solo di qualcuno, passano nelle mani di qualche fidanzatino o amico, che cataloga le immagini con tanto di nomi e cognomi e le mette su Internet.

Le foto incominciano a circolare sugli smartphone dei ragazzi delle scuole e così per le 60 ragazze il boomerang torna indietro. Uno dei loro fidanzati contatta l’associazione anti-pedofilia “La caramella buona”, e attraverso questa la Polizia Postale. Ma senza la denuncia da parte dei genitori delle minorenni il link non si può bloccare e i contenuti non possono essere rimossi.

La situazione è complicata, perché non tutte vogliono raccontare la storia a mamma e papà. «Sono riconoscibili e rischiano di essere contattate e ricattate da gente senza scrupoli. Meglio prendersi una sgridata dai genitori e magari qualche sonora punizione, ma coinvolgere la polizia per l’avvio di indagini e accorgimenti che possano tutelarle», l’appello che viene lanciato loro.

Anche perché, si sa, Internet ha la lingua lunga e presto in un modo o nell’altro i genitori ne verranno lo stesso a conoscenza.

Le 3 “lezioni digitali” di questa storia

Nella nostra tensione a diventare cittadini consapevoli nell’ambiente digitale, da questa triste storia possiamo trarre tutti (i ragazzi soprattutto, ma anche gli adulti) alcune lezioni, da fissare bene a mente:

  • tutto quello che condividiamo, anche in un ambiente che ci sembra protetto, come una chat personale o di gruppo su WhatsApp, è perso per sempre e non sappiamo come e con chi potrà essere ricondiviso. È brutto da dirsi, ma se vogliamo che una cosa delicata rimanga privata, non dobbiamo condividerla. Punto.
  • dobbiamo esercitare un po’ di sana diffidenza: se una persona non è in grado di mantenere un segreto “offline”, probabilmente non sarà in grado di mantenerlo nemmeno nella dimensione digitale. E chi oggi ci è amico o ci dichiara il suo amore eterno, domani potrebbe aver cambiato radicalmente idea. Non affidiamogli niente che domani possa comprometterci.
  • Siamo responsabili gli uni della privacy dell’altro. Osserviamo le persone con cui poi interagiamo anche negli ambienti digitali: lasciano con facilità che altri possano utilizzare il loro smartphone? Lo lasciano spesso incustodito? Evitiamo di affidargli cose nostre “intime” (siano foto, messaggi testuali, video).

Cosa possono fare gli adulti

In un concorso di colpe, sicuramente i “colpevoli maggiori” sono da ricercare tra chi ha fatto uscire le foto dalle chat. Ma non possiamo sollevare del tutto da colpe anche le sessanta ragazze, vittime della propria superficialità e di essersi fidate delle altre ragazze quando, visto l’alto numero di persone presenti nella chat, difficilmente potevano essere in confidenza con tutte.

È vero: siamo tutti responsabili della privacy altrui e dovremmo trattare le cose degli altri come vorremmo fossero trattate le nostre (e quindi non condividere cose che potrebbero danneggiare la privacy e la dignità d’altri). Ma poi, nella realtà, è tutto più difficile. E non solo per i ragazzi, perché si vedono spesso adulti ri-condividere contenuti altrui senza porsi minimamente il problema di poterlo realmente fare.

Per questo dobbiamo prendere delle contro-misure ed essere consapevoli che, fino a quando il concetto della custodia degli altri comprende anche l’aspetto digitale, tutto quello che facciamo uscire dal nostro cellulare è messo potenzialmente in vetrina. E questo, da parte degli adulti, va prima imparato, assimilato e poi spiegato e ricordato costantemente ai nostri ragazzi, quasi come un mantra.

Responsabilità degli adulti?

C’è però un aspetto, una sfumatura, una parola che colpisce nel racconto delle ragazze protagoniste di questa disavventura. Tra le motivazioni date da una delle liceali alla chat hot c’è, riporta il QN, «la noia, l’averlo fatto un po’ per scherzo. Ci mostravamo che a vicenda i seni per far vedere quanto erano abbondanti, e le parti intime, per paragonarci tra noi. Ci piaceva esibirci in questo modo. Ma non avremmo mai immaginato che quel materiale sarebbe uscito dalla chat».

Noia. Una parola che dovrebbe farci sentire un po’ co-responsabili. Perché non solo siamo digiuni dalle dinamiche e dai linguaggi dell’ambiente digitale e non possiamo accompagnare in questi luoghi i ragazzi, ma spesso non li aiutiamo nemmeno a trovare spazi sociali “alternativi” di condivisione, spazi di confronto, spazi di espressione positiva di sé.

Dell’ “altro” abbiamo tutti bisogno, e se non lo troviamo affianco lo andiamo a cercare altrove, anche nei luoghi digitali, dove però, con l’accesso attraverso strumenti tecnologici, il corpo scompare, e con lui anche le emozioni, che possono venire dissociate nei luoghi della Rete.

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