Non chiamateci eroi
La nuvola è larga, bassa, plumbea. C’è neve dappertutto, sopra, sotto, in mezzo. Anche vento. O forse, quello è solo lo spostamento d’aria provocato dalle pale dell’elicottero. L’orologio segna le 10 del mattino ma sembrano le 6 di sera di un buio giorno d’inverno sull’Appennino, di quelli prima di Santa Lucia, prima della speranza, prima della luce che vince la notte. Eppure, è già gennaio, e non dovrebbe essere… così. Luigi guarda giù, e vede tutta quella neve, il fronte della valanga e il bianco interrotto solo da poche macchie nere, forse macerie, disposte come una piccola casa, una specie di piramide. E poi, c’è questo terremoto che non finisce mai, i due metri di neve caduti sopra le macerie, le strade interrotte e ora anche questa valanga. La chiamata dalla Protezione civile aveva raggiunto la delegazione del Soccorso alpino di Avezzano alle 21 di ieri, 18 gennaio 2016. Un hotel, nella località turistica di Rigopiano, nel comune di Farindola, in provincia di Pescara, sembrava fosse stato «interessato da un evento valanghivo». I colleghi di turno si erano subito messi in colonna con gli altri mezzi della Protezione civile per raggiungerlo, ma a 9 km dall’albergo la salita era stata interrotta: un insormontabile muro di neve, ghiaccio e detriti impediva il passaggio. Bisognava fare presto, non perdere più tempo, perché secondo la curva di sopravvivenza in valanga, l’operazione di soccorso è efficace solo se portata a termine entro 15 minuti. Più tempo trascorreva, più la situazione diventava critica per chi era sepolto nella neve. E così, verso mezzanotte, alcuni di questi uomini avevano deciso di proseguire con gli sci e le pelli di foca. Avevano camminato per quasi 5 ore sotto la bufera di neve, finché non erano arrivati sul luogo della catastrofe, stremati e infreddoliti. In quel vuoto surreale, erano riusciti a mettere in salvo due persone, tra cui Giampiero Parete, l’uomo che per primo aveva dato l’allarme valanga. Ma le persone da recuperare, pensa Luigi, sono 40, tra ospiti e dipendenti. Luigi Piccirilli non è un eroe. Che sia chiaro. Lui vive ad Avezzano con la moglie Pamela e le loro tre figlie. Fa il commercialista. È uno come tanti. Certo, c’è quella passione per l’alpinismo che non lo ha mai abbandonato. Per questo, finita l’università, è entrato nel Soccorso alpino: era il 1995 e aveva 28 anni. Oggi, di anni ne ha 50 e, facendo due conti, 22 li ha trascorsi da volontario, con i suoi colleghi della stazione di Avezzano, soccorrendo e recuperando gli escursionisti in pericolo lungo le piste e i sentieri delle montagne della Marsica, del Parco del Sirente-Velino, di Valle Roveto, dei monti Ernici e Cantari. Lavoro impegnativo ma ordinario. Poi, ci sono gli eventi straordinari, come questo. Quella mattina, erano partiti alle 7 da Avezzano, per dare il cambio ai colleghi arrivati per primi. Avevano raggiunto il Coc (Centro operativo comunale)di Penne, verso le 9. Sarebbero dovuti arrivare via terra ma la strada appena liberata era stata subito invasa da un’altra valanga. Così, li avevano fatti salire su un elicottero della Polizia, che ora li stava depositando sul luogo del disastro. Ecco il suo racconto: «Toccata terra, il flusso dei pensieri si interrompe, anzi, pensi che non c’è tempo per i pensieri, che bisogna coordinarsi subito con gli altri, che la vita di tante persone può dipendere da come farai o non farai bene il tuo lavoro di concerto con gli altri. Così, con il ghiaccio in gola, raccogli le consegne dai colleghi. Primo. Il Soccorso alpino lavora sopra le neve e i Vigili del fuoco dentro la maceria.
Secondo. L’hotel è stato spostato e ricoperto dalla slavina. Buona parte della struttura è stata trascinata verso valle per 300 metri. Ti dicono che quella che ti era sembrata una piccola casa era il tetto che ricopriva il centro benessere. È crollato tutto. Tra la neve ci sono rami, mattoni, vetri, anche contaminazioni di gas e idrocarburi. Si può lavorare solo con le pale. Sotto tutto, ci sono le persone da salvare. E allora fai il tuo, e pensi solo a quello. Tiri fuori dallo zaino la sonda da valanga e ti affianchi agli altri soccorritori per tastare la presenza di persone. Lavori insieme, perché questo fa un volontario del Soccorso alpino: il lavoro di squadra. «Mentre sei lì, non sai da quanto, senti dal tono delle voci che è successo qualcosa. Un’altra cosa che speravi non succedesse. Sono stati rinvenuti i corpi di tre persone decedute. Dicono che probabilmente si trovavano in giardino quando la valanga ha colpito l’hotel, e lì sono stati travolti.«Arriva l’elicottero e li porta via, e tu continui a lavorare sulla neve, fino a sera, finché non arriva il cambio, che sono le 18. Mentre la ruspa ancora non riesce a salire e i Vigili del fuoco continuano a scavare a mano, con le pale. Lasci le consegne, ti avvii alla macchina per tornare, che ora almeno quelle riescono a passare, ma per tornare a Penne, ci metti comunque tre ore. E ad Avezzano, arrivi che sono le tre. Poi, giorni di vita normale. A Rigopiano ritorni la domenica. Ma è tutto diverso, perché ora sono arrivati tanti volontari da Nord a dare una mano. Alla fine, dopo una settimana di lavoro, il bilancio della tragedia è di 11 sopravvissuti, 29 morti e nessun disperso».La nuvola è larga, bassa, plumbea. C’è neve dappertutto, sopra, sotto, in mezzo. Tanto era densa, che non la distinguevi dalle piste. Ma stavolta non c’è vento. Solo i rottami dell’elicottero del 118 precipitato intorno alle 12.15, dopo aver recuperato uno sciatore infortunato. È successo il 24 gennaio 2017, a Campo Felice sul Gran Sasso. Sono tutti morti: il pilota, il medico, l’infermiere, l’addetto del Soccorso alpino, il verricellista e lo sciatore. Ma per Luigi sono anche amici volontari del Soccorso alpino: Walter Bucci, medico rianimatore del 118; Davide De Carolis, tecnico dell’elisoccorso, e Mario Matrella, verricellista. Walter e Davide avevano prestato soccorso anche a Rigopiano, salvando tante vite.
Luigi aveva scritto sul suo profilo Facebook: «Lavoro e credo nel volontariato fin da ragazzo (…). Ritengo che il volontario sia “energicamente indipendente”, perché si alimenta dell’amore che lui stesso genera per le sue “fatiche”, è portatore sano di un “contagio virale”, perché l’altruismo tende ad essere imitato. Secondo me l’eroismo più vero è quello nascosto. Quello del clown che strappa un sorriso al bimbo malato, del cuoco e dell’inserviente della mensa della Caritas, dell’educatore di ragazzi “difficili” cittadini di “domani”, di quei volontari che lavorano nelle periferie la cui faccia non conosceremo mai…».
Grazie, volontari, per il vostro lavoro ordinario, silenzioso e nascosto.