Nomadi tibetani
Eredi di una tradizione millenaria, hanno saputo sviluppare in condizioni estreme un modello di pastorizia unico al mondo. Ma oggi la loro identità etnico-culturale è fortemente minacciata
Immersa tra le catene montuose più alte del pianeta, la cosiddetta grande "Distesa del Nord" tibetano costituisce il più vasto ed elevato altipiano esistente, coprendo un’area di circa 2,5 milioni di chilometri quadrati con un’altitudine media di 4000 metri. Questa immensa zona desertica, interrotta da grandi laghi salati e da profondi dirupi, occupa i tre quarti dell’intero Tibet. Da qui hanno origine i maggiori fiumi dell’Asia che riforniscono d’acqua gran parte della Cina e del subcontinente indiano. È un ecosistema in gran parte non modificato dall’uomo, dove vivono forme di fauna selvatica uniche al mondo.
I nomadi tibetani (250 mila, secondo recenti statistiche cinesi) sono riusciti a sopravvivere nel corso dei secoli non solo ad un ambiente particolarmente ostile, ma anche ai grandi cambiamenti politici e sociali che hanno interessato il loro mondo. E ciò grazie al felice equilibrio raggiunto con la natura circostante che li ha resi uno degli ultimi grandi esempi di gestione sostenibile degli allevamenti di animali. Un piano per contribuire a uno sviluppo durevole di queste popolazioni è stato promosso dalla ong Asia (Associazione per la solidarietà internazionale in Asia). Negli ultimi anni già molto è stato fatto: dalla costruzione di scuole e ospedali, a programmi di adozione a distanza, alla conservazione e al restauro di monumenti e manoscritti antichi, ad interventi umanitari e di emergenza, fino ad attività di microcredito per incentivare le iniziative economiche e lo sviluppo dell’agricoltura. In Italia questa associazione fondata nel 1988 e iscritta all’albo delle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) sta promuovendo una adeguata informazione e sensibilizzazione attraverso progetti di educazione allo sviluppo.
Ma vediamo più da vicino questo popolo a cominciare dalle sue credenze religiose. «Non interrompete la vostra protezione con la luce del giorno,/ Non dimenticatemi nel buio della notte. Non abbandonatemi./ Siate come l’ombra con il corpo. Datemi rifugio e protezione./ Siate le mie sentinelle e i miei guardiani./"Ki ho!Ki ho!". Invoco il passo montano». È una delle formule rituali con le quali, da millenni, i nomadi tibetani propiziano le divinità guerriere della montagna. Ciò facendo, aggiungono altre pietre ai tumuli eretti in prossimità delle cime a rappresentare, secondo le loro credenze, quelle stesse divinità.
Dai bastoni piantati sopra quegli ammassi pietrosi si dipartono corde su cui sventolano bandierine dai cinque colori, tanti quanti sono gli elementi costitutivi dell’universo: terra, acqua, fuoco, vento ed etere. Su ciascuna di esse è raffigurato il "cavallo del vento" circondato da altri quattro animali: la leonessa bianca a est, il drago blu a sud, la tigre a ovest e l’aquila a nord. Simboli, tutti, della forza vitale dell’uomo. Lasciar sventolare simili bandierine sulle cime più alte dei monti – quei monti nei quali i tibetani ravvisano i loro "antenati" e talvolta i "pilastri del cielo" – è uno dei principali riti propiziatori della loro religiosità e fa parte integrante dei paesaggi himalayani.
Sono luoghi di selvaggia bellezza, misteriosi, inaccessibili, che hanno alimentato a lungo la fantasia dei viaggiatori occidentali. Non a caso l’autore di Orizzonte perduto situò proprio in essi la mitica Shangrila, dove regnava la pace perfetta e non esistevano né malattie, né vecchiaia, né morte. Più in là, in mezzo alle rocce, risaltano sulla candida neve, nere tende in pelle di yak. Grandi, capaci di accogliere una famiglia di almeno seisette individui, se non di più. E ad una tenda capovolta, il cui palo centrale è rappresentato dalla montagna cosmica, il monte Tise o Sumeru, fanno riferimento alcune cosmografie tibetane per descrivere la volta celeste.
Vera immagine in miniatura dell’universo, la tenda dei pastori nomadi dispone in cima di un foro per il passaggio della luce e del fumo del focolare: è la "porta del cielo", che fa da tramite col regno del soprannaturale e pertanto non viene mai chiusa del tutto, nemmeno nel caso di acquazzoni o di nevicate. Viceversa il focolare rappresenta la "porta della terra", accesso al mondo degli spiriti sotterranei. Gettando uno sguardo all’interno di queste abitazioni mobili, si può ammirare la sapiente divisione interna, le suppellettili, gli oggetti di uso comune, spesso riccamente ornati. Ma dove più la fantasia sembra sbizzarrirsi è nelle fogge e nei colori degli abiti e nella varietà dei monili. Anche qui, però, ogni particolare riflette una visione trascendente della vita. Bellezza non fine a sé stessa, dunque, ma che sempre rinvia ad un significato profondo. Tutto infatti ha un senso, rientrando in un ordine che abbraccia terra e cielo: proprio quello che il nostro occidente sembra aver smarrito.
Per millenni queste popolazioni sono riuscite a sopravvivere in condizioni ambientali e climatiche estreme, rivestendo un ruolo di primo piano nel processo di formazione della civiltà tibetana (col loro contributo, tra il VII e il X secolo l’impero del Tibet divenne la maggiore potenza politico-militare dell’Asia). Senonché quella stessa natura con la quale, da sempre, avevano vissuto in perfetta simbiosi oggi si sta rivelando loro ostile e per la prima volta la possibilità di vivere secondo gli antichi costumi viene messa in dubbio. Negli ultimi decenni, infatti, la Mongolia interna cinese e le province occidentali e orientali della Regione Autonoma Tibetana e del Qinghai sono state colpite da una serie quasi ininterrotta di calamità naturali: terribili nevicate cui sono succeduti lunghi periodi di siccità che hanno decimato le mandrie di yak e le greggi, principale risorsa dei nomadi. Fenomeni del genere, comuni peraltro anche in altre zone della Terra, qui in particolare stanno palesando l’inadeguatezza del modello di sviluppo introdotto dal governo cinese a partire dagli anni Cinquanta. Si tratta di politiche agricole che hanno completamente stravolto le tradizioni delle popolazioni, costringendole a rinunciare alla mobilità e a un modo di vita che aveva permesso loro di sopravvivere nei secoli, secondo un modello di pastorizia ad alta quota, unico al mondo.
Purtroppo il susseguirsi delle avversità climatiche, la difficile realtà orografica del paese, la bassissima densità della popolazione nomade e la mancanza di politiche economiche sostenibili da parte dei governi locali fanno sì che gli aiuti umanitari di emergenza abbiano per lo più effetti temporanei. Senza una vasta mobilitazione, sarà possibile evitare la scomparsa, in un prossimo futuro, dei nomadi del Tibet? E se ciò dovesse avvenire, non saremmo tutti più poveri: noi per la perdita irreversibile di una cultura millenaria e il nostro pianeta per la distruzione di un ecosistema davvero unico?