Nola e il gioco del tempo

Nel Museo della cittadina campana le eccezionali testimonianze di una Pompei preistorica, scavata e di nuovo interrata, stimolano la fantasia
Nola e il gioco del tempo

«Scusi, sa indicarmi dov’è il Museo archeologico? Dovrebbe trovarsi qui vicino». La persona da me interpellata sembra cascare dalle nuvole. Non va meglio con un altro passante. «Un museo?… Non sapevo che qui ci fosse un museo». Eppure Nola, di cui sto visitando il centro storico, non è certo una metropoli. Finalmente qualcuno mi sa indicare ciò che cerco nell’intrico di stradine.

 

Il “Museo archeologico dell’antica Nola” (questo il suo nome) ha sede in un severo edificio, già convento delle Suore Canossiane, ora restaurato. La storia millenaria della città campana che seppe confrontarsi alla pari con greci, etruschi e romani vi è narrata dalle origini (VIII-VII secolo a. C.) all’epoca romana (fino al V secolo d. C.). Peccato che finora, ad apprezzare le prestigiose collezioni ospitate nelle sue sale, si sia aggiunto a me solo un gruppo sparuto di visitatori non certo nolani.

 

Da tempo ero attirato dagli eccezionali rinvenimenti nel territorio di Nola e di San Paolo Belsito, relativi ad alcuni villaggi dell’età del bronzo seppelliti dall’eruzione vesuviana detta delle “pomici di Avellino” (intorno al 3.780 a. C.) e attribuiti alla “cultura di Palma Campania”. È il motivo principale della mia venuta qui e della lunga sosta nel settore preistorico.

 

Rimango affascinato dalla perfetta ricostruzione in scala di una delle tre grandi capanne scoperte nel 2001 in via Polveriera, alla periferia di Nola, durante la costruzione di un supermercato. La struttura, in legno e graticciato di canne, è completa di tutte le suppellettili rinvenute nello scavo: per lo più vasi per conservare derrate di vario genere, tazze, scodelle, brocche e teglie di diversa forma e dimensione, talora con le superfici esterne lisciate o lucidate. Alcuni di questi contenitori presentano anche decorazioni geometriche a intaglio o graffite; oppure plastiche, ottenute con cordoni lisci, linguette o semplici ditate. Tutto riporta a una dimensione domestica, che è poi quella che rende vive e parlanti queste tracce di una remota umanità.

 

Così vive e parlanti che, favorito anche dal silenzio quasi claustrale della sala, la fantasia ne è stimolata. E mi diverto a immaginare la scenetta che segue:

Quando s’accorse che nonno Umberto era stranamente silenzioso, Stefano lasciò perdere il suo programma tv per girarsi verso di lui: lo vide tutto concentrato nella lettura di una rivista, sprofondato nel suo divano preferito. Incuriosito, gli si arrampicò accanto: «Che roba è, nonno?».

«Archeologia… Ah, che articolo interessante! Nei dintorni di Nola, a qualche chilometro da Napoli, è stata fatta una scoperta eccezionale che ci fa rivivere una tragedia di quattromila anni fa…». «Fai vedere!». E il bambino cercò le figure dell’articolo.

«Aspetta – lo fermò il nonno –, ti propongo qualcosa di meglio: una specie di gioco nel quale io ti descrivo le cose e quel che è successo, e tu cerchi di immaginarlo. Il confronto con le foto lo rimandiamo a dopo. Ti va?».

«D’accordo!» acconsentì Stefano, sapendo che col nonno c’era sempre da divertirsi.

«Allora spegni il televisore, siediti accanto a me e copriti gli occhi. Lavorerai solo di fantasia…».

 

Si schiarì la voce e cominciò: «Immagina una grande pianura dove vaste zone incolte sono inframezzate ad altre coltivate. Guarda: in lontananza, dietro quei boschi di querce, spunta una montagna a forma di cono: ne riparleremo. In primo piano c’è un villaggio preistorico (siamo nell’età del Bronzo antico) composto da una decina di capanne. Hanno una forma strana, a ferro di cavallo, con tetti spioventi fino a terra, e sono rivestite di giunchi e di paglia. Da quasi tutte esce del fumo dall’unico ingresso: evidentemente qualcuno sta cucinando. Vedi la scena?».

«Sì, ma dov’è la gente?…».

«In questo momento quasi tutti gli uomini sono fuori, chi a lavorare nei campi, chi a pascolare le greggi. Sono rimasti i vecchi, le donne e i bambini, questi ultimi intenti ai loro giochi in un ampio spiazzo. Delle galline razzolano, dei cani gironzolano qua e là…».

«Sì, sì. E poi?».

«Ah! – riprese il nonno –. Guarda quella gabbia con dentro nove capre, e quelle ceste contenenti fieno. E, un po’ fuori del villaggio, quei recinti con pecore, mucche e maiali…Vedi tutto questo?».

«Sì, nonno. Ma cos’era la storia della tragedia?».

 

«Non essere impaziente e continua a tenere gli occhi chiusi e la mente sveglia… Ecco, in quella capanna una donna ha intenzione di cuocere delle focacce: per questo ha mandato suo figlio nell’altra metà dell’abitazione che funge da dispensa. Da notare quei vasi di terracotta contenenti mandorle e granaglie varie. Il bambino si avvicina a un grande silos di vimini, pieno di grano dorato, e…».

«E cosa fa?».

«Con una paletta di legno ne raccoglie un po’ e lo porta alla mamma. Pensa che quattromila anni dopo quel recipiente e quel grano sono stati ritrovati intatti, con ancora il solco dell’ultima cucchiaiata!».

«Hai ragione: lo vedo anch’io!» si entusiasma Stefano.

«Per il momento tutto è tranquillo ma… aspetta! Cosa sta accadendo? Sento un boato, la terra si scuote e… Hai presente la montagna di prima? Dalla cima si sta innalzando a tutta velocità una gigantesca colonna di fumo grigiastro…».

«Mamma mia, allora era un vulcano!».

«Già. Tutti si precipitano fuori dalle capanne, le donne con i bambini più piccoli in braccio, gli anziani appoggiandosi ai bastoni. E come pietrificati guardano verso la montagna che ora sta eruttando fuoco… A proposito, non ti ho detto che quello è il Vesuvio».

«Allora siamo nell’antica Pompei?».

 

«Ma no, Stefy, quella è un’altra storia, successa moltissimo tempo dopo questa che ti sto raccontando, anche se in un posto non lontano. Andiamo avanti… Dopo il primo sbalordimento, non si pensa che alla fuga. Intanto anche quelli che erano nei campi cominciano ad arrivare di corsa, trafelati. C’è una confusione enorme, s’invocano gli dei, agli urli delle donne e dei bambini si mescolano i lamenti delle bestie terrorizzate.

«Simili a grandine, cominciano a cadere pomici e lapilli ancora fumanti. L’aria diventa irrespirabile. Sta facendosi buio, un buio interrotto solo dai bagliori dell’eruzione e dei lampi».

«Poveretti!» commenta il piccolo Stefy.

E il nonno: «Mentre le ceneri vulcaniche si accumulano dappertutto, a causa delle continue scosse di terremoto nelle capanne ormai abbandonate le pile di piatti e di tazze si rovesciano, le pentole ballano sui focolari, ondeggiano i pezzi di carne secca, appesi alle travi.

«Ormai chi poteva, uomini e animali, ha cercato scampo nella fuga. Chi ha scelto la strada verso nord-ovest, verso la pianura, potrà sperare di salvarsi. Chi invece è fuggito verso l’attuale Palma Campania sarà travolto inesorabilmente».

«E nel villaggio?». «Sono restati solo le povere capre chiuse in gabbia, un cane rifugiatosi dietro il graticciato di una delle capanne e pochi altri animali: inutile dirti che i loro scheletri sono stati puntualmente ritrovati dagli archeologi.

 

«Le ceneri e i lapilli stanno ricoprendo tutto; come se non bastasse, tra poco una alluvione di fango scesa dalle pendici del vulcano sigillerà per sempre questo luogo, preservandolo per i nostri giorni…». «Mi sembra di vederla arrivare quella colata…», riprese Stefano, che aveva presente certe scene di film catastrofici. «Ed ora, nonno, posso guardare la rivista?».

«Ok, riapri gli occhi!». Al nipotino, ora, quell’antica tragedia parlava attraverso le foto delle capanne dissepolte con tutte le suppellettili. C’era perfino una brocca ancora nel forno: qualcuno doveva avervi messo a cuocere del cibo che non aveva più potuto consumare. Ma ciò che più colpì la sua fantasia fu l’impronta, nel fango solidificato, di una spiga: era identica a quelle di oggi, eppure risaliva a quattromila anni fa!

Nonno Umberto poteva dirsi soddisfatto: da quella sorta di “gioco del tempo” un ponte era stato lanciato tra un figlio del XXI secolo amante dei videogiochi e quella remota umanità agricolo-pastorale.

 

Purtroppo ciò che restava di quel villaggio preistorico oggi non è più visibile. Stavolta è stato l’uomo, e non il Vesuvio, a seppellirlo nuovamente nel maggio del 2014. Non potendo, per la cronica mancanza di fondi, assicurare la salvaguardia del sito archeologico, fra l’altro minacciato da una falda acquifera a cui non si era potuto o voluto porre rimedio, i responsabili della Soprintendenza hanno deciso di interrare le tre capanne in attesa di tempi migliori per riportarle alla luce. Ne parla, fra l’altro, il giornalista Antonio Cangiano in Non solo Pompei. Viaggio nell’archeologia derelitta in Campania, un libro-denuncia edito da Magenes che raccoglie le sue archeo-inchieste realizzate per il Corriere del Mezzogiorno. Per fortuna di questa Pompei dell’età del bronzo antico ci rimangono a Nola le testimonianze in un museo che, anche soltanto per esse, meriterebbe di essere conosciuto e valorizzato.

 

(Foto tratta dal sito del Comune di Nola).

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