Il nodo migrazioni per la Fortezza Europa
Il contrasto all’immigrazione illegale riconcilia Gran Bretagna e Francia. Lo hanno detto il primo ministro anglo-indiano Sunak e il presidente Macron nel commentare l’accordo di fine 2022 con cui Londra ha deciso di finanziare con 542 milioni di euro l’impegno assunto da Parigi di frenare il flusso di migranti che vogliono attraversare la Manica. Almeno 42 mila “clandestini” nel 2022 secondo le stime. Si prevede l’assunzione di centinaia di reclute della guardia costiera e l’acquisto di droni e altre tecnologie nonché la costruzione di un grande centro di detenzione nel nord della Francia.
Francia e Regno Unito sono consolidate società multietniche. Il premier britannico è un indiano di religione induista, mentre Humza Yousaf, leader del partito nazionalista scozzese, è un musulmano figlio di padre pakistano e madre keniota. Ma questi esempi di assimilazione non possono rimuovere il disagio delle troppe periferie dei Paesi europei dove vivono enclave di immigrati niente affatto integrate con il resto della città.
È una dinamica che conosciamo molto bene noi italiani, costretti a un’emigrazione di massa che ha esposto molti connazionali, in passato, a gravi discriminazioni. Esemplare il racconto di Enrico Deaglio sul linciaggio avvenuto nel 1899 di 5 lavoratori siciliani arrivati a New Orleans per sostituire i neri liberati dalla schiavitù (Storia vera e terribile tra Sicilia e America, Sellerio editore).
Da questo retroterra si comprende l’immediata solidarietà offerta dalla popolazione calabrese lo scorso febbraio quando, a pochi metri dalla spiaggia di Cutro, si è ribaltata una nave di migranti provocando la morte di circa 100 persone. I 54 superstiti sono in prevalenza afghani, 3 pakistani, un siriano, un palestinese e un tunisino. Tra le vittime 24 minori di 12 anni e anche 2 volti noti: Shahida Raza, ex giocatrice di hockey su prato pakistana, e Torpekai Amarkhel, giornalista afgana fuggita da un Paese riconsegnato dagli Usa al regime talebano dopo cifre colossali spese in armi e centinaia di migliaia di morti.
La causa del mancato immediato soccorso è sotto inchiesta della magistratura. Nei giorni successivi al disastro, la guardia costiera ha salvato altre centinaia di migranti.
La tragedia di Cutro non è solo oggetto di polemiche politiche, ma mette in evidenza differenti visioni del mondo. Il presidente Mattarella è andato immeditatamente a portare vicinanza alle vittime, parte della società civile ha promosso manifestazioni e veglie di preghiera. Un segnale di mancata assuefazione all’orrore di una cronaca del Mediterraneo come un grande cimitero. Il governo Meloni si è mosso dopo qualche giorno convocando nella località marittima un Consiglio dei ministri per adottare un decreto, convertito poi in legge, che punisce più duramente gli scafisti ma soprattutto interviene nella «prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare» con misure criticate da chi lavora per l’accoglienza e l’integrazione delle persone migranti. Per il Centro Astalli dei gesuiti si tratta di «un affronto alle vittime di Cutro». Il servizio dei rifugiati promosso dai religiosi della Compagnia di Gesù denuncia l’adozione di «misure che ledono i diritti inviolabili alla libertà personale e alla difesa» come, ad esempio, «il ripristino di forme di detenzione per richiedenti asilo».
Per i migranti definiti irregolari è previsto il potenziamento dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, una struttura che il garante nazionale dei detenuti Mario Palma definisce «inutile e disumana».
Il “decreto Cutro” esprime la cultura dell’attuale governo che secondo alcuni, per il forte astensionismo e le distorsioni della legge elettorale, non rappresenta la maggioranza del Paese ma di certo ha i numeri in Parlamento ed è connesso con una diffusa narrazione sui migranti fondata sulla convinzione che solo una piccola parte di essi sia formata da rifugiati che meritano il diritto d’asilo.
Secondo tale ricostruzione i flussi in arrivo, per la loro stessa sicurezza, devono perciò essere bloccati nei luoghi di partenza anche con il blocco navale, come propone ad esempio l’ammiraglio Nicola De Felice del Centro studi Machiavelli, vicino ad ambienti dell’esecutivo. Rientra in questa logica il progetto del governo conservatore britannico di trasferire i richiedenti asilo in un Paese terzo, disposto ad ospitare, dietro compenso, dei centri di smistamento. Londra ha perciò concluso un accordo con il Ruanda al quale ha destinato un primo fondo da 120 milioni di sterline, dopo aver avuto il via libera della Corte suprema britannica. Di parere contrario sono tante associazioni che parlano di “deportazioni” in uno Stato accusato, tra l’altro, di fomentare la guerra civile in Congo.
La scelta britannica ricalca la pratica già in essere in Australia, dove i migranti sono trasferiti in Papa Nuova Guinea e nell’isola di Nauru. Sunak ha ricevuto il plauso di Giorgia Meloni recatasi a Londra a fine aprile per definire un patto strategico su industria della difesa e politiche delle migrazioni.
Anche l’accordo miliardario in vigore tra Unione europea e Turchia è finalizzato a impedire l’arrivo di profughi siriani così come il memorandum italo libico del 2017, promosso dal governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni, serve per dotare Tripoli di mezzi adatti a fermare i migranti diretti verso il nostro Paese. Accordo denunciato dal quotidiano Avvenire che ha documentato, con fonti Onu, la presenza di campi di detenzione gestiti come lager nonché la presenza della mafia locale nella guardia costiera libica.
La fornitura di navi, droni e tecnologie idonee a fermare i migranti, è parte delle trattative dell’Italia con il generale Haftar che controlla, grazie al sostegno egiziano e russo, la zona della Cirenaica dopo il frazionamento della Libia prodotto dalla guerra del 2011 sostenuta dall’Italia su spinta della Francia e degli angloamericani.
«Non chiamiamoli più migranti» ma onestamente «i nostri nemici, contro i quali conduciamo una guerra spietata e senza lesinare sulle armi». È quanto afferma lo scrittore Maurizio Pagliassotti che in un libro racconta il viaggio a ritroso compiuto dal confine italiano passando per i Balcani, la Grecia e la Turchia fino alla frontiera dell’Iran incontrando una vasta umanità dolente respinta indietro con ogni mezzo. È «il cuore di tenebra dell’Europa», afferma Pagliassotti commentando Ursula von der Leyen che parla di Atene come «scudo» della nostra sicurezza.
E tuttavia anche l’attuale dirigenza di Bruxelles sarebbe pervasa da un’ideologia relativista, incapace di fermare le masse di migranti destinate a minare le fondamenta dell’Europa. È questa la convinzione dell’internazionale dei conservatori che ha riunito ad inizio maggio in Ungheria numerosi think tank, dallo statunitense American Conservative Union Foundation all’italiano Nazione Futura, che vanta una forte presenza di giovani intellettuali intenzionati a saldare il nuovo corso di Roma con il modello ungherese che, ad esempio, ha costruito un muro di filo spinato al confine con Croazia e Serbia, ma che punta molto, anche, sulla promozione della natalità interna rifiutando la tesi di chi sbrigativamente afferma di rispondere al crollo demografico occidentale con l’incentivo all’immigrazione.
Tracce di una complessità che obbliga a un confronto serio sull’idea di società e di bene comune che pone la questione immigrazione con uno sguardo rivolto alle elezioni europee del 2024. L’Unione europea rivela le sue radici dai frutti che è capace di offrire. «Gli occhi sgomenti, atterriti dei sopravvissuti» di Cutro «ci chiedono su cosa fondiamo oggi noi europei, noi occidentali, la promessa che abbiamo fatto quando abbiamo scritto la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”». Parole di un uomo di frontiera, il vescovo di Palermo Corrado Lorefice.
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«Non hanno riconosciuto, i nostri fratelli pakistani, afghani, iraniani, siriani, nell’orizzonte freddo della costa… la diversità della nostra terra rispetto a quella che li ha scacciati, perseguitati, minacciati, costretti all’esilio».
Corrado Lorefice
Il piano d’azione sui Balcani occidentali
Gianfranco Schiavone, studioso di migrazioni, già componente del Consiglio direttivo dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), presidente del Cis (Consorzio italiano di solidarietà) – Ufficio rifugiati onlus Trieste.
Cos’è la Rotta balcanica?
All’interno dell’Europa c’è un ampio spazio sociale e geografico che da almeno 25 anni è attraversato da buona parte dei rifugiati che arrivano da zone di conflitto e persecuzioni in Asia e in Medio Oriente. La maggioranza di coloro che in Europa vengono riconosciuti come rifugiati giunge proprio attraverso la Rotta balcanica e proviene da Siria, Afghanistan e Iraq.
La Commissione europea ha presentato a dicembre 2022 il Piano d’azione dell’Unione europea sui Balcani occidentali. Di cosa si tratta?
Un documento in linea con quanto già scritto nel Patto per le migrazioni. L’orientamento dell’Unione europea è quello di cercare di fare nell’area balcanica quello che ha fatto con altri Paesi fuori dall’Unione e dall’Europa, come ad esempio in Turchia: ossia trasformare questa regione in una grande area di confinamento dei rifugiati, pagare questi Paesi perché svolgano due compiti strettamente connessi: tenersi i rifugiati che non si vuole che arrivino in Ue; e poi collaborare in ogni modo possibile ai respingimenti ai confini esterni dell’Unione. Per realizzare questi obiettivi si prevede la costruzione di strutture di accoglienza per i rifugiati nei Paesi balcanici che non sono della Ue.
L’Italia cosa può aspettarsi dalle riunioni dei prossimi Consigli europei?
L’Unione europea andrà avanti nella direzione della politica di esternalizzazione verso Paesi terzi e non si opporrà all’Italia – ad esempio – per quello che sta facendo con la Libia, che è una forma di confinamento in un Paese terzo, anche se molto più violenta di quella che avviene sulla rotta balcanica o verso la Turchia.
L’Unione sta vivendo una contraddizione molto profonda che non si sta risolvendo. È bloccata da anni una riforma effettiva della normativa europea – il Regolamento Dublino III – che prevede un principio di equa ripartizione delle responsabilità e quindi anche di equa ripartizione delle presenze.
Il quadro è chiaro e ben delineato da almeno due anni e quello che si dice nelle riunioni del Consiglio europeo sono delle varianti dello stesso programma generale che punta tutto esclusivamente sulla esternalizzazione delle frontiere e delle procedure e sul confinamento delle persone nei Paesi terzi.
Tutto ciò che avviene all’interno dell’Unione è solo l’accelerazione delle procedure e la compressione delle garanzie per i profughi. Nulla che abbia a che fare quindi con un meccanismo di solidarietà intra-europeo.
a cura di Flavia Cerino
Approfondimenti su cittanuova.it nel Focus “Dizionario sulle migrazioni”
Oltre l’indifferenza
Emilio Rossi, fondatore di Ciac, Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale, Parma.
Come è nata la vostra realtà?
Ai tempi della guerra nella ex Jugoslavia con un gruppo di associazioni di Parma abbiamo deciso di sostenere i disertori e obiettori di coscienza di tutte le parti in conflitto anche andando oltre confine per aiutarli ad uscire visto che erano respinti dai Paesi europei come avviene oggi in altri contesti.
E in che modo ci siete riusciti?
Grazie a un assessore, Danilo Amadei, che faceva da garante con lettere intestate del Comune. In questo modo abbiamo anticipato il modello dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) come sistema pubblico di accoglienza che è stato introdotto, poi, a livello nazionale nel 2001, incentrato sulla collaborazione tra ente locale e associazioni di tutela. Abbiamo iniziato quindi con chi veniva dalla Jugoslavia e poi abbiamo continuato con i curdi. Abbiamo testato un modello che funziona con la centralità dell’ente locale come soggetto pubblico con il quale si collabora, ma che non si vuole sostituire.
Avete poi promosso la formazione di avvocati per aprire degli sportelli immigrazione asilo e cittadinanza rivolti a tutelare i diritti delle persone migranti…
Un servizio ora attivo in 26 Comuni del territorio in grado di svolgere pratiche complesse come il ricongiungimento familiare. Ovviamente non potevamo fermarci all’assistenza. Abbiamo perciò promosso il progetto “Terra d’asilo” che è tuttora in funzione e ha contribuito a fare del parmense un’area con due centri Sprar per governare un processo che non può essere gestito in emergenza. Si tratta di lavorare sempre meglio, in ragione del rispetto dovuto alle persone che vogliamo accogliere, stando attenti, nello stesso tempo, a coinvolgere la cittadinanza perché l’integrazione funziona solo con il coinvolgimento della società per non creare mondi separati. Le strutture non sono sufficienti ad accogliere tutti immediatamente e c’è chi rimane per strada. La tendenza prevalente in questi casi può essere quella di restare indifferenti e far finta di nulla per evitare scocciature e invece il nostro impegno è quello di far rendere tutti coscienti del fatto che esistono persone da accogliere.
È evidente che adesso viviamo un clima sociale e una narrazione diversa dagli anni ’90 in cui è iniziato il vostro impegno…
Oggi la guerra rientra nel novero delle possibilità per il nostro Paese. I media spesso hanno instillato un senso di indifferenza. Sarebbe stato molto diverso se si fossero gestite tante tragedie dei popoli in guerra come sta avvenendo oggi con l’accoglienza dei rifugiati ucraini.
a cura di Carlo Cefaloni
Intervista integrale su cittanuova.it