Nobel contro la violenza sulle donne
Un premio Nobel che questa volta non dovrebbe scontentare nessuno, o perlomeno chi crede nella civiltà umana. Sono stati premiati due personaggi, già conosciuti negli ambienti delle Ong e della difesa dei diritti umani, uniti dalla questione drammatica degli stupri di guerra. I laureati sono il ginecologo congolese Denis Mukwege e la yazide Nadia Murad. Storie diverse ma unite dal dolore indicibile della violenza carnale sulle donne. Va notato che anche quest’anno il premio Nobel va a una coppia, una giovane donna e un uomo adulto, come nel 2014, quando a ricevere il premio furono l’indiano Kailash Satyarthi e la pakistana Malala Yousafzai. Due storie che aiutano a tenere alto il vessillo della difesa dei diritti umani nel mondo.
Per quasi 20 anni, il dr. Mukwege ha curato donne che sono state mutilate durante uno stupro, ma anche bambine e giovani che hanno subito la pratica dell’escissione. Divenuto uno degli specialisti mondiali sul trattamento delle torture sessuali, il dottor Mukwege, 58enne, ha praticato da 30 anni in qua la professione di ginecologo nel Sud Kivu, spesso a rischio della propria vita. In effetti 25 ottobre 2012 a Bukavu, la capitale appunto del Sud Kivu, nell’Ovest della Repubblica Democratica del Congo, subisce un agguato da parte di 5 uomini. Si salva per miracolo, per l’intervento “alla disperata” di un collega che ha saputo attirare l’attenzione di colui che stava per ammazzarlo. Il suo impegno per le donne era iniziato nel 1999, per il caso di una paziente violentata da 6 soldati, uno dei quali le aveva anche sparato agli organi genitali. È così diventato pure un ambasciatore della causa delle donne che subiscono violenza sessuale. Laureato con numerosi premi, più onorifici che altro, non ha mai cessato il suo lavoro.
Tutt’altra storia quella di Nadia Murad, se si esclude il tipo di violenza subita. Quattro anni fa, il suo villaggio di Kocho, nella regione degli yazidi di Sinjar, in Iraq, si era svegliato di soprassalto per l’attacco delle forze del Daesh. Ma, a differenza degli abitanti di altri villaggi della loro stessa minoranza etnico-religiosa, non erano fuggiti. I jihadisti li radunarono chiedendo che si convertissero all’Islam. Ma tutti rifiutarono. Le donne giovani furono schiavizzate e sottoposte a sevizie e stupri ripetuti, mentre gli uomini furono semplicemente massacrati, e i loro corpi ammucchiati in fosse comuni. I giovani uomini, invece, prima di essere soppressi, vennero usati come bestie da soma per seppellire i loro padri. Nadia Murad è una sopravvissuta. All’epoca aveva 21 anni. Portata con la forza a Mosul, la capitale irachena dell’allora Stato islamico, è stata venduta, violentata e torturata a ripetizione. Con l’aiuto di una famiglia musulmana, riuscì a fuggire dai suoi carnefici. Attraversata la linea del fronte, ha trovato rifugio nel Kurdistan iracheno. È stata tra i fondatori dell’associazione Yazda, nel 2014, con il sostegno di attivisti statunitensi, e ne è ben presto divenuta il volto. L’organizzazione si distingue per la sua indipendenza, anche dal governo dello stesso Kurdistan. L’instancabile missione di Nadia sarà quella di ricordare al mondo che migliaia di donne yazide sono ancora in cattività, spesso con i loro figli, quelle che non sono state già ammazzate. Stabilitasi in Germania, nel dicembre del 2015 ha potuto esprimersi dinanzi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e nel 2016, è stata nominata ambasciatrice di buona volontà dell’Onu stessa.