No armi ma ospedali? Il perché di un tabù
In provincia di Bologna la Siare Engineering International Group s.r.l. ha intensificato i turni ed è intervenuto l’esercito per poter produrre un numero maggiore di ventilatori polmonari. Macchinari necessari per i reparti di terapia intensiva. Non tutte le aziende, quindi, sono in crisi o costrette a fermarsi per il lockdown.
In un altro settore, e con fatturati decisamente superiori, anche Fincantieri, controllata dal ministero dell’Economia, non si ferma ed ha annunciato di aver ricevuto la conferma della commessa dalla nostra Marina Militare per due nuovi sommergibili U-212 dal costo iniziale di 1,3 miliardi di euro. «Anche adesso, mentre negli ospedali mancano i letti di terapia intensiva, noi facciamo affari con le armi». Secondo Gino Strada, si tratta di una scelta irresponsabile da parte di un Paese che si trova sotto assedio per la crisi economica e parte della popolazione non ha di che mangiare.
Il ragionamento sembra filare, ma è il medico chirurgo fondatore di Emergency ad avere le “idee confuse”, secondo alcuni esponenti politici. Strada, che ha aperto ospedali nelle zone di conflitto e conosce la guerra vera, insiste e afferma che ci troviamo davanti a un “tabù”: «In Italia si può parlare di tutto, ma non di spese militari».
Istanza minoritaria
Risulta, in effetti, di un argomento rimosso dai media e dal dibattito politico che conta. Ci provano, da anni, le campagne di pressione di Rete disarmo e Sbilanciamoci, ma si tratta di realtà attualmente minoritarie, dopo il grande movimento del 2003 contro la guerra in Iraq. Rimozione di una sconfitta della società civile che si è dedicata ad altro in questi anni.
Anche perché sembra un argomento troppo tecnico. Mentre, al contrario, nelle scuole di strategie militari si ripete il motto di Leone Trotski: «Tu puoi non essere interessato alla guerra, ma la guerra è interessata a te». E “quando meno te lo aspetti” si potrebbe aggiungere. Eppure, incalzati dalle tragiche notizie dell’avanzare del virus, sembra muoversi qualcosa nell’ambito della coscienza civile.
Senza rimandare, come al solito, all’ipotetica fine dell’emergenza sanitaria, è arrivato l’appello a Mattarella, governo e Parlamento, da parte della Scuola di economia civile (assieme a Focolari, pax Christi e Banca etica) a mantenere chiuse le attività “incivili” delle armi.
L’intera Pastorale sociale del lavoro del Piemonte ha emesso un comunicato, condiviso dal vescovo di Torino, dove si afferma di «non voler tacere di fronte a questa ipocrisia. Diciamo no a lavori per la guerra, no alla produzione e allestimento degli F35, costosissimo progetto di aerei che possono trasportare bombe nucleari. Quanti posti letto si potrebbero ottenere con il costo anche di un solo aereo?».
Affermazioni che arrivano da un territorio legato non solo ai caccia F35, nell’aeroporto di Cameri, ma anche agli Euro Fighter che fanno parte della commessa di 28 aerei da caccia destinati all’aviazione del Kuwait. Una gara vinta, come capofila, da Leonardo Finmeccanica. Società controllata da capitale pubblico e che proprio a Torino è in procinto di ottenere 230 mila metri quadrati ad uso gratuito per la riqualificazione, nel settore della Difesa e Aerospazio, di aree produttive dismesse.
Una lettera nella tempesta
Arriva, inoltre, prevalentemente dal Sud del Paese una “lettera nella tempesta” redatta da esponenti del mondo ecclesiale, con la firma di esponenti della cultura, religiose e religiosi, prevalentemente gesuiti, compreso il decano della facoltà teologica dell’Italia Meridionale, che prendono spunto dall’invocazione del papa del 27 marzo, nella piazza San Pietro vuota, per chiedere un cambiamento radicale, non solo morale, ma politico.
A partire da nuovi investimenti nella sanità pubblica,dopo anni di tagli, e da «una progressiva e incisiva riduzione delle spese militari, soprattutto per quello che riguarda l’acquisto di aerei da combattimento, navi da guerra, sistemi d’arma, nel quadro di un radicale ripensamento della stessa idea di difesa nazionale».
Istanze che arrivano, appunto, “nell’ora della tempesta” ma contrastano con le strategie di lungo termine adottate, finora, dai governi italiani, a prescindere dal colore politico.
Fincantieri, ad esempio, sta costruendo 7 navi da guerra per la Marina del Qatar per circa 4 miliardi di euro, e il suo amministratore delegato ha annunciato, come rivela il sempre ben informato sito di Analisi Difesa, di aver siglato «un’intesa con Barzan Holdings, società posseduta al 100% dal ministero della Difesa qatariota, con l’obiettivo di rafforzare la partnership strategica e la prospettiva di gestire l’intera flotta navale del Qatar».
È opportuno, inoltre, ricordare, per restare al Sud, il varo, nel maggio 2019 a Castellammare di Stabia (Napoli), della Trieste, portaelicotteri da assalto anfibio della Marina militare dotata dei più sofisticati sistemi di combattimento.
Un know how che diventa un biglietto da visita per la proiezione commerciale verso i mercati internazionali come conferma la direzione di Fincantieri con particolare attenzione ai clienti del Medio Oriente. Area dove esiste, come è noto, una notevole concorrenza. Anche di Paesi alleati, prima fra tutti la Francia.
Per restare nel quadrante dei conflitti in corso, merita ricordare che, dal 2014 al 2018, la Turchia figura come il primo Paese di esportazione delle armi italiane. Si tratta di un Paese della Nato, coinvolto in numerosi conflitti criticati formalmente nel nostro Paese.
Il tabù da sfatare
Ci troviamo perciò davanti a una grande contraddizione, a una “ipocrisia armamentista” come l’ha definita papa Francesco nella conferenza stampa del viaggio di ritorno, il 26 novembre 2019, dal Giappone: «Bisogna finirla con questa ipocrisia. Che una Nazione abbia il coraggio di dire: “Io non posso parlare di pace, perché la mia economia guadagna tanto con la fabbricazione delle armi”. Senza insultare e senza sporcare quel Paese, ma parlare come fratelli, fermiamoci ragazzi».
Una sfida esplicita che si potrà affrontare rimettendo al centro le scelte strategiche e strutturali a livello nazionale ed europeo. Una ridefinizione, ad esempio, della politica della difesa e le ricadute in termini di scelte industriali.
Gli appelli di parte della società civile sono il primo segnale di una presa di coscienza, che va poi declinata, per non restare sterile utopia, misurandosi con la complessità delle scelte politiche. Sembra proprio questo il “tabù” indicato da Gino Strada.
A tale sfida occorrerà pensare osservando le lenzuola bianche che la campagna per la difesa e il rilancio del servizio sanitario pubblico ha chiesto si esporre il 7 aprile. Bianco vuol dire il colore del mondo della sanità, della pace. Non quello della resa, si spera.
Per approfondire cfr la sessione di economia disarmata del 6 aprile da Genova