Il no alle armi dei portuali di Genova

Da cosa nasce nel porto di Genova l’opposizione dei lavoratori del Calp al traffico di armi verso i Paesi in guerra? Intervista a Giacomo Marchetti, tra gli organizzatori dell’iniziativa Fari di pace, a proposito della visione complessiva dei nodi del sistema portuale della città ligure
Genova. manifestazione 2 aprile 2022 foto Massimo Sortino

I lavoratori portuali di Genova sono stati di nuovo citati da papa Francesco nell’intervista al Corriere della Sera come un esempio da seguire, in questi tempi di guerra, per la loro decisione di rifiutarsi di caricare armi su una nave destinata ad un Paese, l’Arabia Saudita, coinvolto nella guerra in Yemen.

Questa scelta, che dura ormai da anni e si ricollega ad una antica tradizione di solidarietà internazionale presente tra i portuali della città ligure, è sostenuta apertamente dalla diocesi di Genova che il 2 aprile è intervenuta con l’arcivescovo Marco Tasca alla marcia per la pace promossa da diverse realtà associative locali e nazionali per chiedere ufficialmente all’autorità portuale il rispetto della legge 185/90 che vieta il trasferimento di armi ai Paesi in guerra o che violano i diritti umani.

In particolare l’istanza chiedeva l’accesso agli atti cioè ai «documenti relativi al carico delle «navi Bahri, Bill of Lading, Shipping Cargo, Cargo Manifest ed ogni altro documento attestante natura, qualità, quantità e destinazione della merce trasportata, con riferimento ad armamenti ed esplosivi».

A tale richiesta è arrivata la risposta formale dell’ “Autorità di sistema portuale del mar Ligure occidentale” che ha dichiarato, come da documentazione accessibile sul sito Weapon Watch, di non poter rispondere in materia «in quanto non attinenti l’esercizio delle funzioni di competenza, vertendosi su merci pericolose in transito, di competenza della Capitaneria di Porto».

La questione è quindi intricata e sarà al centro di ulteriori approfondimenti. Resta il fatto che il flusso di armi nei nostri porti non è destinato, di certo, a diminuire e c’è bisogno di capire più in generale come funziona e come è orientato a crescere l’intero sistema portuale del nostro Paese che è una grande piattaforma al centro del Mar Mediterraneo.

E siccome la pretesa dei portuali che si oppongono al traffico di armi è quella di esercitare un controllo responsabile della loro attività in tutta la filiera, abbiamo sentito, più in generale, il parere di Giacomo Marchetti, lavoratore del comparto industriale marittimo genovese e collaboratore della testata in line Contropiano.

Quali sono, a tuo parere, le trasformazioni che hanno interessato il porto di Genova negli ultimi anni?
La privatizzazione che ha riguardato il porto – rendendolo uno spezzatino –  ha fatto da “apripista” ad una tendenza generale di svendita del patrimonio pubblico ed una gigantesca ristrutturazione produttiva che ha conosciuto il nostro sistema Paese. Questo processo è avvenuto con un contestuale pensionamento anticipato di quei lavoratori che avevano animato le lotte dei camalli dagli Anni Sessanta.

Container e computer, hanno cambiato radicalmente il lavoro delle banchine, e la privatizzazione ha frammentato la classe operaia portuale, ma non ha reciso quel filo rosso delle lotte passate contro il lavoro avventizio, per il miglioramento delle condizioni di sicurezza, ed a fianco della resistenza dei popoli, si pensi al caso del Vietnam e del Cile.

Dopo una sorta di regolamentazione di quel processo di privatizzazione è stato raggiunto una specie di equilibrio tra i soggetti coinvolti nella “comunità portuale” che ha garantito extra-profitti alla filiera della economia del mare ed una condizione di relativa garanzia per i lavoratori, con una sostanziale pace sociale rotta temporaneamente solo in caso di infortuni mortali o da scioperi “rituali” per il rinnovo del Ccnl. I sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil, hanno sostanzialmente accompagnato questo processo di “passivizzazione” della classe.

Ma quale è stato il passaggio più significativo di questa vicenda?
Da tempo alcuni soggetti – che Sergio Bologna aveva giustamente definito “le multinazionali del mare” – hanno cominciato a cannibalizzare gli attori locali, dettando le loro regole, e mettendo sotto ricatto tutti gli altri, facendo saltare quel meccanismo concertativo ormai obsoleto per loro che si sentono i padroni indisturbati del settore. Il risultato di questo processo di mostruosa concentrazione, in cui l’autorità pubblica ha abdicato progressivamente alle proprie funzione di garante di un bene comune, è sotto gli occhi di tutti: aumenti della produttività a discapito della sicurezza, salari stagnanti di fronte a profitti astronomici, un processo di precarizzazione strisciante, l’attacco alle Compagnie Uniche (antica forma di organizzazione autogestita e solidale dei servizi portuali da parte degli stessi lavoratori, ndr). Insieme a questo si è instaurata una sorta di omertà rispetto a tutto ciò che circolava sulle banchine, con il beneplacito dei media. In primis sul transito di armi. Insieme a questo vi è stato uno sviluppo tecnologico che ha sempre più autonomizzato il processo produttivo.

Quali sono gli interessi prevalenti e quali progetti sono in discussione?
Gli interessi prevalenti sono quelli di un pugno di soggetti che ha promosso la “finanziarizzazione” dell’intero comparto, ed il gigantismo navale – specie nel settore del traffico dei container – ha costretto un adeguamento dei porti con lavori faraonici, in cui in soldoni il pubblico faceva investimenti di cui si avvantaggiava il privato, con grande gioia del partito del “tondino e del cemento”.

Che incidenza può avere nel lungo tempo l’esemplare obiezione alla guerra dei lavoratori portuali? Il flusso delle navi di armi infatti è destinata a non fermarsi nonostante le proteste…
L’obiezione di coscienza è stata il frutto, da un lato, di un lungo lavoro di denuncia assolutamente inascoltato portato avanti dal CALP, dall’altro di una sorta di emulazione virtuosa avvenuta tra differenti scali, che ha portato al primo sciopero alcuni anni fa, e poi ad altre azioni. Con la creazione del Coordinamento Nazionale Lavoratori Portuali di USB, e l’assunzione di questa battaglia, lo scorso anno ed il boicottaggio successivo delle armi destinate ad Israele – allargatosi ad altre realtà sindacali – durante l’ennesima aggressione a Gaza, questa iniziativa ha fatto un salto di qualità. Lo sciopero poi del 31 marzo di quest’anno a Genova ha rilanciato poi questa lotta.

Quali sono le motivazioni più radicate all’origine della vostra mobilitazione?
La mobilitazione ha coinvolto direttamente i lavoratori portuali ed aggregato una folta schiera di solidali – di cui faccio parte – che fanno del rifiuto etico-politico della guerra la loro ragione principale, e che non vogliono diventare “soldati” dell’ingranaggio bellico e monitorare ciò che avviene sulle banchine. Oltre a questo vi è il tema della sicurezza di chi maneggia questo particolare tipo di merci che investe tutta la cittadinanza. Ricordiamoci ciò che è successo a Beirut!

Che tipo di risposta c’è stata alla protesta dei portuali da parte degli altri settori della filiera industriale marittima? Cosa può fare la cosiddetta società civile più vicina per non fermarsi al mero sostegno morale?
La risposta è stata di una doppia natura, tutta la filiera economica che lucra sul traffico d’armi, tutti i politici che devono la loro rendita di posizione al complesso militare-industriale, una parte degli apparati dello Stato, hanno attaccato questo tipo di iniziativa molto duramente. Un’altra parte, che è quella che citavo si sono riconosciuti in questo tipo di iniziative ed hanno trovato i loro canali per rafforzare la lotta, ormai divenuta di dominio pubblico. Lottare per la pace, il disarmo, per la riconversione del settore militar-industriale, e contro il partito trasversale della guerra è l’aiuto migliore che si possa dare per dare una mano a questa lotta.

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