No alla guerra
D’improvviso ogni tot anni ci si risveglia all’Eliseo, alla Casa Bianca, al Cremlino, a Downing Street, persino a Palazzo Chigi, e si decide di partire in guerra: 1991 Iraq 1, 2001 Afghanistan, 2003 Iraq 2, 2011 Libia, 2015 Siria. Di nuovo. Non sono bastate le batoste rimediate: oggi nelle cancellerie occidentali («la guerra è il prestigio per eccellenza», denunciava Simone Weil) si è giunti alla conclusione che l’unico modo per sconfiggere l’Isis è partire in guerra, come al solito solo dai cieli, perché gli statunitensi in testa non sopportano più di vedere i loro figli tornare in patria dai campi di battaglia dentro le bare.
Così alcuni Stati europei interventisti (ormai consueta l’assenza di politiche coordinate nell’Unione) oggi sgomitano per far parte della coalizione, ma senza sporcarsi le mani (facciamo “semplicemente” decollare Rafale, Tornado o Typhoon), senza in realtà preoccuparsi di quali macerie lasceranno sul terreno. Come sempre.
La Russia, da parte sua, si sporca le mani (non manda solo Mig in Siria), ma questa non è una novità: nuova è la sua strategia che riesce a navigare tra i veti incrociati, creando addirittura ponti diplomatico-militari con Israele da una parte e Iran dall’altra, uniti a distanza (incredibile!) contro il Califfato di al-Baghdadi. Tutti gli attori sulla scena, purtroppo, ne approfittano per usare le armi che hanno prodotto («bisogna pur utilizzarle, non possiamo tenere gli hangar pieni!», dicono i produttori).
Di nuovo, la diplomazia sembra tacere dinanzi alle bombe. Papa Francesco aveva già affermato il 18 agosto scorso, parlando del Califfato, che «è lecito fermare l’aggressore ingiusto»; ma non aveva certo detto «con le armi». Intendeva con le armi economiche, culturali, religiose e diplomatiche (un reale embargo contro l’Isis lo farebbe vacillare in pochi mesi). Possibile che non ci si renda ancora conto che le armi nel quadrante mediorientale non fanno che accrescere la confusione, inasprire i conflitti interni al mondo musulmano, identificare l’Occidente con il Male, costringere tanti cristiani a lasciare quelle terre, far crescere il radicalismo violento, foraggiare i mercenari in mimetica e i mercanti d’armi in doppiopetto, allontanare per decenni ogni possibile convivenza civile, mettere in un cassetto la ricerca dei diritti dell’uomo? L’unica soluzione appare quella di sganciare bombe.
Scriveva Elias Canetti: «Non possiamo neppure tirare un respiro fra questa guerra e la prossima». E Igino Giordani: «La stessa guerra giusta è di fatto condotta oggi con tale violenza indiscriminata che colpendo militari e civili, per il danno sproporzionato che reca, diviene essa stessa ingiusta».
E pensare che una scuola costa meno di una bomba. Avremmo potuto disseminare le amate terre calpestate da Abramo, Gesù e Muhammad di ospedali, biblioteche, luoghi di pace e non di guerra, di preghiera. Avremmo dovuto capire sin dall’inizio che solo il metodo inclusivo porta alla pace, mai quello esclusivo. La vicenda Assad lo prova di nuovo.
Continuiamo così a ragionare solo col vocabolario delle bombe, per fermare creature mostruose come l’Isis che noi stessi abbiamo finanziato indirettamente in passato e che abbiamo contribuito a far crescere con le nostre scellerate politiche delle bombe e dell’esportazione della democrazia coi carri armati, oltre che con tragici errori strategico-militari. Imbocchiamo di nuovo la presunta scorciatoia delle bombe, che appare forse più efficace a breve termine di una strategia diplomatica, culturale, religiosa ed economica di largo respiro, ma che a medio e lungo termine accentuerà i fossati e lascerà solo macerie su macerie.
Di nuovo diciamo no alla guerra con la voce di milioni di cittadini italiani che non cedono alla facile propaganda che agisce già sui media e sugli scranni del Parlamento. «La guerra è il fallimento di ogni autentico umanesimo», scriveva Giovanni Paolo II nel 1999.