No alla “dottrina della scoperta”
Papa Francesco, soprattutto nel suo ultimo viaggio in Canada e non solo, ha espresso alle popolazioni native le scuse sue e della Chiesa cattolica per quanto questi popoli, non solo nel Nord America, hanno dovuto soffrire a causa della colonizzazione e della relativa legittimazione da parte della Chiesa. In effetti, il colonialismo e l’euro-etnocentrismo profondamente legati fra loro; e, insieme allo sfruttamento abietto ed incondizionato delle risorse dei Paesi occupati dal potere delle potenze (cristiane) europee, rappresentano una ferita indelebile per molti popoli ed etnie. A questo si è aggiunta l’onta delle violenze subite nelle scuole, spesso tenute da religiosi o istituzioni cristiane (di diverse denominazioni) ma anche statali, che hanno determinato dei veri genocidi. Già Giovanni Paolo II aveva recitato un mea culpa importante per riparare ad un capitolo vergognoso della storia dell’umanità che, oltre ai poteri governativi, aveva coinvolto anche le missioni e l’evangelizzazione. Benedetto XVI aveva ripreso il discorso, ma papa Francesco ha desiderato dare segni ancora più chiari – prima, ricevendo in Vaticano una delegazione di rappresentanti della cosiddetta “first nation” del Canada, e poi recandosi nel luglio dello scorso anno nel Paese nord-Americano per rivolgersi, in diversi angoli del suo territorio, a discendenti e sopravvissuti di queste violenze perpetrare spesso in nome della religione. Oltre ai gesti recenti di Bergoglio, che non si è limitato ad esprimere il suo dolore per quanto accaduto, ma anche ad ascoltare le sofferenze di questi popoli, era necessaria una presa di distanze ufficiale della Chiesa cattolica.
È in questo senso che si deve leggere la breve ma chiara nota pubblicata congiuntamente il 30 marzo scorso dal Dicastero per la Cultura e da quello per l’Educazione e il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Merita riflettere brevemente su un testo che si apre con un riferimento alla nota più caratterizzante del pontificato di Francesco: la fraternità. È infatti proprio in nome della fraternità universale che si condannano «gli atti di violenza, oppressione, ingiustizia sociale e schiavitù, compresi quelli commessi contro le popolazioni indigene». D’altra parte, non si vogliono neppure ignorare «vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici che hanno dato la loro vita in difesa della dignità di quei popoli». E non sono stati pochi lungo i vari secoli incriminati. Il testo, tuttavia, non desidera minimizzare su errori commessi in diversi momenti della storia, purtroppo, anche da discepoli di Cristo. Riconosce, infatti, senza mezzi termini ed attenuanti che «molti cristiani hanno commesso atti malvagi contro le popolazioni indigene». E per questo i papi recenti hanno avuto il coraggio di esprimere le loro scuse per quanto commesso nei confronti di popolazioni inermi, aprendo la Chiesa alla presa di coscienza dei loro valori e delle loro culture. Soprattutto, però, l’apertura al riconoscimento di tragici errori ha aperto un dialogo in cui la Chiesa ha potuto acquisire una crescente «consapevolezza delle loro sofferenze, passate e presenti», che sono state causate, in particolare, dall’espropriazione delle terre considerate un dono sacro di Dio e degli antenati. Difficile, se non impossibile, per l’occidente, comprendere il significato che la terra ha per questi popoli nativi. Essa, spesso se non sempre, è considerata come madre; e la scellerata politica di assimilazione imposta dai governi coloniali ha privato popoli di una dimensione che è parte integrante delle rispettive culture e del loro essere. Per questo, la perdita coatta della terra ha significato lo smarrimento della propria identità come popolo e come cultura. In questo contesto, l’azione dell’attuale pontefice è fondamentale per aiutare la Chiesa a ritrovare il suo impegno per «camminare con loro fianco a fianco, nel rispetto reciproco e nel dialogo, riconoscendo i diritti e i valori culturali di tutti gli individui e i popoli». È necessario favorire la riconciliazione con questi popoli e la guarigione dalle ferite causate con politiche coloniali e violente durante vari secoli.
Nel corso della Storia l’espansione coloniale si era appoggiata sulla cosiddetta «dottrina della scoperta», un vero e proprio concetto giuridico dibattuto dalle potenze coloniali che ha preso forma a partire dal XVI secolo per trovare, poi, una espressione nella giurisprudenza dell’Ottocento. Il concetto giuridico prevedeva che la scoperta di terre da parte dei coloni concedeva il diritto esclusivo di estinguere, mediante acquisto o conquista, il titolo o il possesso di quelle terre da parte delle popolazioni indigene. Studi più o meno recenti hanno rintracciato la legittimazione teologica ed ecclesiale di questo principio giuridico in diversi documenti papali del XV secolo. La recente nota della Santa Sede tiene a ribadire e chiarire che tale «dottrina della scoperta» «non fa parte dell’insegnamento della Chiesa cattolica». In effetti, sebbene si possano trovare elementi e passaggi che si riferiscono a queste politiche in modo favorevole, chiarisce il documento, si deve sempre tener conto che «i testi in questione, scritti in un periodo storico specifico e legati a questioni politiche, non sono mai stati considerati espressioni della fede cattolica». D’altra parte, il testo tiene a riconoscere che le «Bolle papali non riflettevano adeguatamente la pari dignità e i diritti dei popoli indigeni». La riflessione attuale non fatica ad ammettere che è avvenuta una chiara manipolazione a fini politici da parte delle «potenze coloniali in competizione tra loro, per giustificare atti immorali contro le popolazioni indigene, compiuti talvolta senza l’opposizione delle autorità ecclesiastiche». Papa Francesco non si stanca di ribadire in modo chiaro il rispetto dovuto ad ogni essere umano, esortando tutta la comunità cristiana «a non lasciarsi [più] contagiare dall’idea che una cultura sia superiore alle altre, o che sia legittimo ricorrere a modi di coercizione degli altri». Ma già nel 1537 nella bolla Sublimis Deus, Papa Paolo III scrisse: «Definiamo e dichiariamo [… ] che [… ] i detti indiani e tutti gli altri popoli che in seguito saranno scoperti dai cristiani, non devono in alcun modo essere privati della loro libertà o del possesso dei loro beni, anche se non sono di fede cristiana; e che possono e devono, liberamente e legittimamente, godere della loro libertà e del possesso dei loro beni; né devono essere in alcun modo ridotti in schiavitù; se dovesse accadere il contrario, sarà nullo e non avrà alcun effetto».