No alla criminalizzazione dei nostri prodotti
La stazza imponente fa subito pensare che sia un buongustaio e che la sua immagine ricalca perfettamente il suo ruolo. Prisco Lucio Sorbo, direttore della ColdirettiCampania ci riceve nella sala riunioni della sede di Caserta tra poster di prodotti agricoli invitanti e pezzi di storia di questa sezione dei coltivatori diretti. La conoscenza della terra e della vita degli associati lo spinge a dichiarazioni forti soprattutto verso quei contadini che si sono macchiati del delitto di inquinare un territorio fertile e felice, la Campania felix.
Stamattina un contadino diceva: «Per favore dite che la mia terra non è inquinata, non riesco a portare fuori dalla campagna niente da più di un mese».
«È un grido di allarme di cui dobbiamo tenere conto. Questa è una storia che dura da anni, una storia che ha fatto scendere il brand della Campania a livello del pavimento. La prima cosa che ci siamo chiesti: “Cosa c’entra l’agricoltura con l’ambiente la cui gestione scellerata ha ridotto in questo modo?”. Noi abbiamo due ordini di problemi: un ambiente depauperato e deturpato e un’agricoltura che paga questa follia. Abbiamo cercato di tenere distinto il problema ambientale, che è un problema di sicurezza e di salute, dal problema agricolo, ma non è facile. Noi facciamo analisi di terreni, acque e prodotti dal 2008 e la grande distribuzione non accetterebbe i nostri prodotti se questi dati fossero alterati. Dl 2011 l’Istituto superiore di sanità sta facendo controlli in tutta l’area e non è riuscito a trovare un prodotto che abbia residui tossici. La diossina, ad esempio, è un problema dei terreni e non dei prodotti che su questi terreni crescono, perché lavando con acqua i prodotti la diossina viene via, oppure i composti organici volatili che sono nell’acqua non passano nella pianta e con qualche grado di temperatura in più scompaiono. Queste sono le conclusioni a cui è giunto l’ISS nella relazione presentata alla Regione Campania nel giugno 2013.
Quale il vostro compito in questo frangente…
«Noi vogliamo cooperare con le istituzioni perché questi dati vengano diffusi, ma il problema in questo momento è la credibilità delle istituzioni.Per esempio sul Mattino di ieri c’erano in due pagine consecutive due comunicazioni discordanti sulla percentuale dei terreni inquinati, una del generale Costa, comandante della Guardia forestale della Provincia di Napoli, che dichiarava che le aree contaminate rappresentano il 5 per cento, e una del presidente della giunta regionale, che dice invece che sono l’un per cento. Le dichiarazioni non possono essere discordanti: quali dati sono stati presi in esame per giungere a conclusioni così diverse».
Bisogna attendere solo le bonifiche o ci sono altre soluzioni?
«La nostra proposta, alternativa alla bonifica dei territori contaminati – perché la bonifica ha bisogno di soldi e finanziamenti e dove ci sono i soldi c’è il malaffare – è stata quella di circoscrivere i territori contaminati e usare per l’agricoltura quelli non contaminati. Abbiamo chiesto di fare questo monitoraggio, disposti a lasciare delle fasce di salvaguardia. All’inizio l’idea di distinguere il problema ambientale da quello agricolo sembrava assurda e l’unica via d’uscita ipotizzabile era la bonifica, ora invece sta passando. Sicuramente la bonifica va fatta, ma se per bonificare i terreni ci volessero, per dire, ottant’anni, non possiamo fermare l’economia della regione e della popolazione in attesa della bonifica».
Cosa pensa di quei contadini che hanno venduto alla criminalità i terreni in cui seppellire i rifiuti?
«Devono essere arrestati. Chi si è arricchito illecitamente è un delinquente, non un agricoltore. La cultura agricola è una cultura che porta a ringraziare la terra perché ti dà da mangiare, non a fare affari con la criminalità. Tanti giovani napoletani, in questo momento di grande incertezza economica, sono tornati in campagna, nelle terre dei loro padri e dei loro nonni e sono spesso laureati e diplomati. Con l’agricoltura non ci si arricchisce, ma essa ti dà una visione del futuro. Soprattutto perché oggi un’azienda agricola può fare tante attività collaterali alla coltivazione della terra, come attività agrituristiche, vendita diretta dei prodotti, attività sociali»
Qualche suo socio è stato coinvolto nel problema dei terreni inquinati, ha avuto prodotti contaminati?
«Fino ad oggi non abbiamo trovato nessuna azienda che abbia prodotti contaminati. Nei duemila ettari analizzati di cui abbiamo ora i dati solo due siti sono risultati positivi. Uno era una discarica e l’altro un terreno in cui non si coltivava».
Perché allora alcune grosse catene di distribuzione alimentare hanno disdetto totalmente l’importazione di prodotti campani?
«I distributori disdicono perché i consumatori non comprano prodotti campani, non ci guadagnano e allora ne fanno un discorso di immagine, di promozione. Così la Coop, i consumatori non gradiscono prodotti campani e la Coop non li distribuisce anche se, analisi alla mano, sono prodotti buoni. Ecco il disastro che si sta producendo e riguarderà il brand della Campania intera, perché oggi è l’agricoltura, ma poi sarà la volta dell’artigianato e così via. L’agricoltura è solo la prima vittima: c’è una fortissima speculazione».
L’Asl di Caivano ha accertato che dei pomodori sono cresciuti sul cosiddetto “biscotto” di rifiuti. I pomodori alle analisi erano perfetti. Le piante, si dice nella certificazione, trovano sempre il meglio dal terreno, difficilmente si lasciano avvelenare. Allora un’altra persona mi ha fatto notare: “È eticamente giusto coltivare sul biscotto?
«No! Per questo io dico di individuare questi terreni e impedirne la coltivazione. Non è eticamente corretto. Va fatta un’analisi dei terreni per individuare dove c’è il “biscotto” e non coltivarci, ma salvare il resto, individuando magari altre criticità, come l’acqua inquinata, che è una cosa molto diversa dal biscotto.
«La sapete la verità delle pecore malate a causa, si dice, della diossina? Lì c’era la Montefibre, che è fallita ed ha chiuso, e per il pastore era comodissimo mettere le pecore lì dentro e le pecore si sono avvelenate lì. Però il pastore poi ha dichiarato che si sono avvelenate mangiando l’erba fuori e ha chiesto una barca di soldi di rimborso.
«Io ho trovato le risorse per utilizzare i droni nell’individuare i terreni e monitorare anche l’aria, a 5, 10, 15 metri così faccio un ulteriore lavoro. In questi modo intanto circoscriviamo le aree e poi affrontiamo il discorso food-no food».
Voi fate anche formazione per gli agricoltori sulla prevenzione e sui rischi? Le racconto un’immagine: Caivano, cumuli di lastre di amianto che bruciano vicino a un pescheto, un agricoltore che attraversa il campo tranquillamente come tutti i giorni.
«Questo è un dramma che si aggiunge al dramma, e torniamo al problema ambientale».
Coglie segnali di speranza?
«La speranza è che i giovani continuino a lottare e che facciano il loro percorso di legalità e che si riesca a fare una comunicazione su questi temi in maniera coerente. A volte ti prende un senso di impotenza, ma non posso cedere».