Nigeria, lo Yuan è la seconda moneta
La Cina riveste un ruolo centrale nell’economia nigeriana, ormai. Così l’introduzione della moneta cinese nel paniere delle divise che possono essere usate normalmente deriva semplicemente dall’aumento delle transazioni commerciali tra la Cina e il continente africano, che dal 2000 si è moltiplicato di 20 volte, superando i 200 miliardi di dollari annui già nel 2013, il doppio di quanto si scambia con gli Stati Uniti.
Tanto più che la nota di arretramento dell’affidabilità dell’economia statunitense ad opera di una delle agenzie di rating, la Standard and Poor’s, aveva creato un certo panico nel Paese, spingendo le autorità ad accelerare il processo per diversificare le monete con le quali “lavorare”. «È arrivato il tempo. La riforma è andata abbastanza avanti perché possiamo detenere gli Yuan come riserve di valuta estera», ha affermato il governatore della Banca Centrale Nigeriana, Lamido Sanusi.
Le trattative tra la Nigeria e Pechino sono durate due anni. La Banca Centrale della Nigeria (Cbn) et la Banca Popolare della Cina hanno firmato, il 3 maggio scorso, un accordo di scambio di divise per 2,5 miliardi di dollari, con lo scopo di facilitare commerci e investimenti bilaterali, migliorando l’affidabilità finanziaria di entrambe le parti. L’accordo permette ai due Paesi di scambiare gli stessi montanti di denaro nell’una o nell’altra divisa, senza per questo creare problemi di liquidità nelle borse valori rispettive.
Ormai la Nigeria usa la moneta cinese nel 10% delle sue trattazioni finanziarie, circa 33 miliardi di dollari. Gli acquisti nigeriani in Cina saranno fatti in yuan, e viceversa.
La Nigeria raggiunge così altri Paesi africani che già usano la moneta cinese. Nell’agosto 2015, in effetti, l’Angola aveva stretto un accordo simile, affiancando lo yuan al kwanza. L’Africa del Sud, primo partner commerciale cinese in Africa, nell’aprile di quello stesso anno aveva adottato una misura simile, seguita dallo Zimbabwe. È da notare che lo scorso marzo altri Paesi africani si sono riuniti per studiare la possibilità di adottare una simile misura. Sui tratta di 14 Paesi, tra i quali Botswana, Lesotho, Namibia, Rwanda e Zambia.