Il Niger non vuole i soldati italiani?
Nell’accordo stabilito nel settembre 2017 col Sahel G5, cioè gli Stati del Burkina Faso, del Niger, della Mauritaria, del Ciad e del Mali – nel quale veniva ipotizzato un allargamento della presenza europea nella regione, fino ad allora in mano quasi esclusivamente francese –, l’arrivo di 470 soldati italiani in Niger era subordinata all’invito esplicito da parte del Paese perché un esercito straniero mettesse piede a Niamey e dintorni, soprattutto nel Nord del Paese. Nei fatti l’invito non è mai arrivato, e la missione militare in Niger è ormai in fase di stallo. I recenti attentati di Ouagadougou hanno complicato ulteriormente le cose, tanto che fibrillazioni di ogni genere stanno turbando i rapporti tra i G5 e tra i G5 e l’Unione europea.
È la seconda volta che accade, nonostante sul posto siano già presenti 40 militari inviati da Palazzo Chigi per preparare l’arrivo del grosso del contingente. È per voce del ministro dell’Interno, Mohamed Bazoum, e per media interposti, che l’altolà è stato fatto giungere a Roma. Che cosa significa? Le possibili ragioni sono molteplici.
Una prima ragione è certamente locale, ed è legata al fatto che nei Paesi del Sahel, impegnati in difficili sfide come il terrorismo e i flussi migratori, c’è bisogno di attenzione diplomatica agli equilibri interni. Difficile metter piede in casa altrui senza avere un esplicito invito e una comunanza di intenti. Probabilmente c’è stata una sottovalutazione dell’importanza di coltivare relazioni tra esponenti dei due esecutivi prima di prendere qualsiasi decisione. Senza escludere il fatto che in questi Paesi la corruzione s’infila un po’ ovunque e cerca di agglutinarsi là dove si profila l’arrivo di fondi dall’estero.
In secondo luogo, l’arrivo dei soldati italiani ha creato una certa gelosia dalle parti di Parigi. L’annuncio dell’arrivo del contingente italiano era stato appoggiato da Macron, ma nei fatti la regione da sempre è un fief, un avamposto francese. La presenza degli italiani, così come dei tedeschi e degli statunitensi, potrebbe aver indisposto il comando delle operazioni in mano francese, soprattutto in un momento assai delicato della lotta contro il complesso jihadismo sahariano.
In terzo luogo lo stallo politico italiano può aver frenato l’attività del governo Gentiloni nell’insistere in una missione di una certa importanza strategica. In effetti, l’impegno concordato prevede una presenza militare anche in Mauritania, Nigeria e Benin (120 persone nel primo semestre 2018 e 470 entro la fine dell’anno), 130 mezzi terrestri e 2 o 3 velivoli C130. In particolare si prevedeva un impegno in lavori infrastrutturali, nella lotta contro le minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari e nel campo informativo. Forse qualcuno nel governo dimissionario pensa che una decisione di tale importanza debba essere presa e portata avanti dal nuovo esecutivo.
Sul fondo restano le inquietanti domande sulla natura della presenza europea nella regione. L’accento messo sulle operazioni militari certamente non favorisce una visione veramente post-colonialista della manovra. E l’ambiguità della duplice missione dei soldati europei nella regione (lotta al terrorismo e contrasto alle migrazioni clandestine) non può che confondere le acque.