Niente a che vedere con il tifo

  Niente partita fra Italia e Serbia, ma una serata di pura follia. Considerazioni dopo i fatti di Genova.
Serbia

 

Accendi la tv per vedere la partita di calcio e lo schermo verde è vuoto, nessun calciatore che rincorre il pallone, ma polizia, funzionari e rappresentati diplomatici degli organi di stato. «Ma come, è appena iniziato il primo tempo?». Il calcio difficilmente si ferma, succede solo quando avvengono fatti destinati a passare alla storia. Genova passerà alla storia.

Il mondo sportivo e non solo è rimasto a bocca aperta di fronte all’inaudita e scellerata follia di un gruppo di “tifosi” che per sfizio e sentimento estremista nei confronti di una ideologia, hanno rovinato una festa dello sport. Genova non aspettava che la nazionale, per vedere giocare i beniamini della “lanterna”: Pazzini e Cassano, con Gastaldello e Criscito, un doriano e un genoano uniti sotto il simbolo della maglia azzurra.

I “tifosi” serbi ci hanno dimostrato ancora una volta cosa può succedere quando lo sport sconfina nella politica e il calcio con le sue tifoserie si presta particolarmente a trasportare un certo modello di cultura. I Tg ne parlano e i giornali scrivono, mettendo in prima pagina stupore e sgomento, ma scavando negli anfratti della storia di un popolo, quello serbo, abbiamo l’opportunità di scoprire l’intreccio e la matrice dei fatti accaduti. Abbiamo l’opportunità di conoscere.

Conoscenza è una parola sempre meno compresa al giorno d’oggi. Conoscendo la storia di una nazione, di una etnia e di una tifoseria è possibile prevedere gli eventi, soprattutto se ci sono già stati precedenti violenti negli stadi che hanno coinvolto i tifosi della Stella Rossa di Belgrado? Nel nostro passato esiste un insegnamento o quel «non deve succedere mai più» che viene tante volte dalle istituzioni è solo di circostanza?

Anche il 13 maggio del 1990 a Zagabria non si è giocò una partita: i calciatori della Dinamo, squadra di casa e della Stella Rossa non solcarono mai il terreno di gioco perché l’odio etnico che ribolliva tra le tifoserie inondò lo stadio. Il neopresidente ultranazionalista croato Franjo Tudjman, riportò in auge gli antichi simboli dell’ustascia, movimento croato estremista che  all’epoca si oppose al regno di Jugoslavia, dominato dalla Serbia. Fu il cerino acceso sopra un mare di benzina. Di li a poco ebbe inizio la guerra civile.

L’occasione è fondamentale perché quel 13 maggio a proteggere l’allenatore della Stella Rossa c’era un agente dei servizi segreti con un passato da capo ultrà: Zeljco Raznatovic, il futuro comandante Arkan, che durante il conflitto iugoslavo guidò le milizie paramilitari serbe, ritenute poi colpevoli di genocidio e pulizia etnica. Arkan reclutava i suoi uomini tra i tifosi della Stella Rossa, facendo leva sul sentimento ultranazionalistico serbo che il conflitto in atto contribuiva ad infiammare. Sono passati anni, ma a volte i lustri non bastano a cancellare le ideologie.

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