Niemeyer, l’architetto partigiano che voleva cambiare il mondo
«L’architettura non è la cosa più importante della mia vita, la cosa più importante della mia vita è viverla», con questo motto Oscar Niemeyer era solito spiazzare i suoi interlocutori dopo averli sedotti con quel suo tipico sorriso che chiudeva come un punto esclamativo ogni sua frase. Frase singolare se pensiamo che a pronunciarla era uno degli uomini che con la sua opera e il suo pensiero più ha segnato la storia dell’architettura in Brasile e nel mondo. Si è spento a 104 anni nella notte del 5 dicembre a Rio de Janeiro l’architetto conosciuto come il padre di Brasilia, la nuova capitale del Brasile, inaugurata nel 1960.
La sua vita vale da sola un manuale di storia dell’architettura. Nato a Rio de Janeiro nel 1907, si laurea in ingegneria e architettura e lavora nello studio di Lucio Costa, futuro disegnatore del piano di Brasilia. Fin da ragazzo ha molto chiaro da che parte stare: è curioso del mondo e delle nuove teorie architettoniche che arrivano dall’Europa, è interessato alla giustizia sociale, ha insaziabile fame di bellezza e di eguaglianza. «Non volevo, al contrario della maggior parte dei colleghi, adattarmi a questa architettura commerciale che vediamo dappertutto. Nonostante non avessi un soldo, ho preferito lavorare gratuitamente nello studio di Costa dove trovavo le risposte ai miei dubbi di giovane studente». Risale a quegli anni l’incontro con le idee di Le Corbusier che hanno influenzato molto il suo stile incentrato sulle estreme possibilità del cemento armato. Sono anni decisivi di scambio tra il movimento moderno europeo e le più originali correnti architettoniche latinoamericane, uno scambio mutuo e reciproco.
Lungo tutta la vita Oscar Niemeyer è rimasto fedele a tre princìpi che appaiono oggi stagliati nelle sue scelte progettuali e di vita.
L’architettura è politica e mestiere militante, è presa di posizione di fronte alle ingiustizie del mondo, è agire perché le condizioni di povertà trovino riscatto. Nel suo lavoro ha sempre privilegiato l’architettura pubblica, l’edilizia popolare, quella che gli consentiva di generare spazi spettacolari in grado di rubare un sorriso di speranza anche al più povero degli operai al ritorno dal lavoro. La città, la convivenza, l’esistenza quotidiana e lo spazio di ognuno di noi, sono il campo di battaglia in cui l’architetto può spendersi. Perché l’architettura è solo un pretesto, uno strumento per cambiare il mondo.
Comunista della prima ora – entra nel partito comunista brasiliano nel 1954 – paga spesso a caro prezzo questa sua appartenenza negli anni del golpe militare del 1964 in Brasile. «Durante la dittatura tutto è stato differente. Il mio studio è stato saccheggiato. I miei progetti poco a poco hanno incominciato ad essere rifiutati. Il posto di un architetto comunista è a Mosca, mi disse un giorno un ministro». È costretto alla fuga, all’esilio a Parigi, tornerà in Brasile solo alla fine della dittatura.
L’architettura è utopia, sovvertimento delle condizioni date, è immaginazione. Brasilia è l’icona di questa utopia. La stessa scelta di localizzare la nuova capitale nell’interno, in una zona arida e semidesertica, è una precisa scelta di campo. Non si trattava semplicemente di immaginare un nuovo centro geografico baricentrico al Brasile ma di immaginare il simbolo della fine del periodo coloniale, capace di segnare uno stacco rispetto alla subalternità ai codici europei, di cui ancora molte città coloniali lungo la costa portavano i segni.
L’architettura è celebrazione della vita e dei sensi. È allegria, gioco, sensualità. «Non è l’angolo retto che mi attrae, né la linea diritta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Quello che mi affascina è la curva libera e sensuale: la curva che trovo sulle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde dell’oceano, nelle nuvole del cielo e nel corpo della donna preferita». L’architettura – soleva ripetere – era una delle sue allegrie: «Creare la forma nuova e creatrice che il cemento armato suggerisce, scoprirla, moltiplicarla, inserirla nella tecnica più d’avanguardia. Questo è per me inventare lo spettacolo dell’architettura».
Era un carioca fin nel midollo, amava la musica, chiacchierare senza sosta, stare sulla spiaggia di Rio a guardare le nuvole e le donne di passaggio.
Piaceva ai bambini. Forse era rimasto lui stesso un bambino. Un bambino che disegnava per aria, che disegnava ovunque, su qualunque pezzo di carta, al bar come nel suo studio con affaccio sulla spiaggia di Copacabana. Non poteva stare troppo a lungo lontano dal mare, dove la sua vita era sempre condita dal sorriso e dalla saudade, quella lieve malinconia di chi è troppo felice e sa che la vita è un soffio, una brezza passeggera del mattino.