Nick Cave: L’inferno e il paradiso
Lo attendevamo da tempo il nuovo album di Nick Cave. Certi che da uno del suo calibro non avremmo, se non altro, avuto a che fare con una routinata da supermercato. In ogni suo disco, anche i meno riusciti, Nick è sempre riuscito a metterci qualcosa in grado di spiazzare, capace di costringerci a pensare, trascendendo finanche la forza delle rime e dei suoni. Questo suo nuovo album, Dig Lazarus Dig!!! (Emi-Mute), il quindicesimo inciso coi i Bad Seeds, non ha tradito le attese, pur non mostrando le sembianze del capolavoro: abissi di tenebra e tagli di luce accecante, coi piedi infangati dai mille inferni terrestri e l’anima ansiosa che implora la quiete salvifica del Paradiso. Bestemmia e preghiera, disperazione e speranza. E le chitarre elettriche, ora rabbiose ora dolenti, a menare le danze. Il signor Nick Cave, forse l’ultimo vero poeta della epopea rock, è un cittadino del mondo. È nato in Australia, ha vissuto a lungo a Berlino alla corte di Wim Wenders, poi è migrato i Brasile, e recentemente è tornato in Europa, nella cosmopolitissima Londra. Sarà per questo che le sue canzoni lo sanno raccontare così bene, questo disgraziato pianeta. Nelle sue canzoni così inevitabilmente autobiografiche, c’è lo strazio pieno di domande di un Giobbe postmoderno, e l’ansia di redenzione di un Lazzaro non ancora uscito dal sepolcro. E questo è, probabilmente, anche il Nick Cave odierno: un artista inquieto che, per dirla con gli U2, ancora non ha trovato ciò che sta cercando: Ho preso Lazzaro – ha dichiarato di recente – e l’ho trasportato a New York. La sua storia si intreccia nell’album con quella del mago Houdini, che per tutta la vita ha cercato di liberare la spiritualità dalle catene della vita moderna. Nick Cave non è una rockstar classica. Incarna semmai il paradigma dell’artista di culto, vagamente maudit, aristocraticamente estraneo ai maneggi del business, ma non così grullo da non saperci fare i conti. In altre parole c’è della furbizia nella sua purezza, o se preferite, la sua è una purezza per nulla sprovveduta. Quanto alle undici canzoni che compongono l’album, subiscono chiaramente l’influenza delle sue inesauste immersioni nella Bibbia, e nel contempo, dei miasmi che saturano l’aria del Terzo Millennio. Ciò che le fa vibrare è un gioioso rumore (la definizione è sua), una dinamica degli opposti, che anela al trascendente e dunque all’assoluto, per sfuggire alla mediocrità di questo presente. Un disco così si può anche non amarlo alla follia, a qualcuno potrà perfino risultare urticante, ma sarà bene assimilarlo con cura e rifletterci su, prima di tranciare verdetti definitivi: non foss’altro perché in esso molto c’è di noi. CD Novità Eugenio Finardi Il cantante e il microfono (Egea) Impresa d’alto profilo culturale per lo stagionato cantautore milanese, qui alle prese con la traduzione delle canzoni di Vladimir Vysotsky: uno dei più grandi cantautori russi, costretto per tutta la vita nei bassifondi della clandestinità da un regime che non poteva certo tollerarne la carica eversiva. Grazie anche al prezioso contributo di Carlo Boccadoro e dell’ensemble Sentieri Selvaggi, ne risulta non solo un appassionato tributo ad una delle voci più intense del Novecento, ma anche una valido strumento di divulgazione per i tantissimi che, di Vysostsky, non hanno mai neanche sentito parlare. Counting Crows Saturday nights & Sunday mornings (Sony-Bmg) Dalle ebbrezze delle notti del sabato alle malinconie delle domeniche mattina. Tra energie rockettare e rusticherie folk, il ritorno di una delle band più dotate dell’attuale scena californiana. Nulla di trascendentale, ma gli amanti del genere apprezzeranno.